La tiepida e assolata giornata invogliò Mulinella la fanciulla stonata ad uscir di casa, inforcò la bicicletta bianca da poco comperata per pochi spiccioli in uno stock fallato del discount e pedalando beata si inoltrò nel cerreto lasciando che il sole le accarezzasse la pelle ingrigita dal lungo inverno e da notti insonni, rotolate tra lenzuola troppo ruvide e un materasso deformato dal battipanni che ogni mattina usava per scacciar gli acari, a suo parere causa d’ogni tormento notturno, si infilavano tra le ciglia con i loro aguzzi tentacolini per impedirle di chiudere gli occhioni grigi azzurri sempre stralunati. Neanche spellata avrebbe ammesso che a tormentarla non erano gli invisibili parassiti ma i ghiribizzi che gli frullavano davanti agli occhi simili ad una specie umana erculea che si contorceva e sudava tanto da gocciare come i cenci del bucato appena stesi o come il vicino Rossicino quando si azzuffava col Nerino. Mulinella pedalava e pedalava inebriata dalle sensazioni che la sfioravano senza soffermarsi con lo sguardo su nulla e con la testa inaridita, come se all’improvviso il cervello si fosse fuso e sole e vento si fossero alleati per farla andare e andare all’infinito senza bagaglio e senza meta. Andando, andando superò il cerreto e si trovò in un luogo inbrullito dal gelo che ai suoi occhi sembrò il paradiso e si disse: “devo aver pedalato assai assai per anni.” Poi sfiorò i lunghi capelli, il viso le braccia, si toccò e ritoccò, frugò ogni angolo del corpo ma non trovò nulla di diverso.
Scese dalla bicicletta bianca fallata, si sdraiò in mezzo alla stradicciola sbalordendo un tordo in siesta sul ramo di un pioppo, guardò in alto raggiante d’essere arrivata nel giardino delle delizie senza sfacchinare e senza perdere l’aspetto suo. Con i suoi occhioni stralunati scrutò per vedere chi c’era lassù, vide una nuvoletta grigia che tentava d’oscurare tutto, le parve il facciotto d’un tale cassinista appiccicato all’angolo del paese che la braccava con telefonate, dispacci e preghierine blaterando che l’aspettava al centro. Chissà se della piazza o della rotonda. Stonata com’era non aveva afferrato. Intanto una cornacchia ballonzova sguaiata nel cielo d’un azzurro simile alla bandiera di Pupette. Ogni giorno la sventola per un cavallerizzo amico suo, un poveretto che bazzica tra Roma e Milano, stracotto da spioni sciamani, abachicchi fricchettoni, fattucchieri infiltrati nei capezzoli d’una mamma santona che per stupettare si son venduti pure la nonna. A Mulinella sembrò che la cornacchiona svolacchiante somigliava a un tale stogattato che aveva visto in un fumetto a casa della Nocciolina coperto da segnacci, le parve che tra gli unghioni teneva il povero Rossicino spelacchiato dal forzuto Nerino e gli crocidava che lo teneva stretto cosi insieme potevano ingozzarsi l’adone di Pupette buttando i resti nel fosso del castello in cima al colle e tanto che c’erano potevano incolpare l’ospite che vi soggiornava perchè cricchiava stonato. Il Rossicino intontito dal garbuglio degli sproloqui dell’ingorda annuiva, però non capiva perché s’era bardata con una sciarpa viola, uguale alla stola quaresimale di don Ugetto e non con quella rossa. Poveruomo pensò la Mulinella deliquiava se non capiva che l’insolente se l’era messa per aumentare la iella al cavallerizzo. Il tanto crocidare bilioso della cornacchiosa divenne per Mulinella un tormento peggiore dell’insonnia cronica da farle girare la capa. Tentò di scacciare l’uccellaccia fischiando, per ripicca quella scese rapida e la beccò sulla cosciotta, dal dolore Mulinella urlò con tutto il fiato. Urlò così forte che fece sussultare la terra, sparire la nuvoletta, impietrire la cornacchia e il Rossicino mezzo strozzato, accorrere tutti gli abitanti appresso che stavano spaparacchiati davanti alla tv a lustrarsi gli occhi con gli albergati della D’urso o di Giletti. Infatti, corsero fuori infastiditi, avrebbero perso gli insulti, i rinfacci i bisticci gonfiati ad arte. Al contrario i conservatori furono contenti di avere una scusa per squagliarsela, erano spappolati dallo zapping, giravano come palline i canali illudendosi di trovare un programma stile collegio per rilassarsi giacché erano inibiti litigi furiosi, pareri contrari, idee strane, tutto era pacioso e idilliaco e non faceva saltare i peli dell’inguine. Invece i dimoranti ibridi del paesucolo, intenti a sognare mete esotiche, non sentirono l’urlo scassa timpani e continuarono a dormirsela alla grande. Anche i paurosi rimasero appiccicati alla tv fregandosene degli affari altrui. Così solo i destrini e sinistrini stanziali del paese ancora scossi dall’urlo selvaggio arrivarono sfiatati e mezzo vestiti dove era partito l’urlo. Sulle prime, vedendo la Mulinella immobile in mezzo all’agro del Verdusso reso pantanoso dalla neve sciolta, si ammutolirono pensando al peggio e si fecero il segno della croce in segno di rispetto, la poveretta era di certo andata nel regno dei più cadendo dalla bicicletta, sapevano che era fallata e solo una brocca poteva comprarla. Poi avvicinandosi la videro contorcersi e arzigogolare con le mani sui capelli, tentava di togliersi una tacchetta sfuggita alla cornacchia impietrita, allora si rinfrancarono e l’assalirono di domande. Mulinella frastornata da tutte ste attenzioni insolite girò qua e la i suoi occhioni grigio azzurri, li guardò e li riguardò e poi disse: “che bello paisà essere tutti insieme in paradiso” Si guardarono muti come pesci, poi il piccoletto bruschino esplose: “ma quale paradiso e paradiso, questo è l’agro del Verdusso, sei proprio la solita stonata imballata !!!! Tutti capirono che avevan corso per una delle solite fole visionarie della Mulinella, le aveva da quando il suo bacarozzo era scappato con la bianchetta, inviperiti lasciarono la poverina e la sua bicicletta a terra, pronunciando un sacco di spropositi tornarono a imbottirsi di ciarlanerie davanti alla tv.