Il “Veliero” di San Pietro

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Nella notte che precede la festa di san Pietro e Paolo in molti paesi persiste l’antica tradizione del veliero o barca di san Pietro.

Cos’è? È un rito da cui trarre auspici!

In che consiste? In un soffio di san Pietro!

Si narra che se la vigilia della festa dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, in un contenitore di vetro, bottiglia, caraffa, vaso, si versa fino a metà dell’acqua, si fa scivolare dolcemente la chiara di un uovo, si mette il recipiente all’aperto, sotto una pianta, sul davanzale di una finestra o un balcone, si lascia ai raggi della luna e alla guazza, al mattino, secondo la descrizione popolare dentro il contenitore magicamente si vedrà la barca di San Pietro!

Come avviene? Secondo una antica leggenda è proprio l’apostolo Pietro il pescatore a compiere la magia!

Come? Durante la notte di vigilia della festa, San pietro accompagnato da San Paolo passa sulla terra e per esprimere vicinanza ai fedeli soffia all’interno del contenitore e fa apparire la sua barca.. Ovvero con un soffio trasforma la chiara d’uovo in veliero che a seconda di come al mattino apparirà all’occhio svelerà se in arrivo ci sono tempi buoni o meno!

Ovviamente la barca o veliero di san Pietro va interpretata. Più il veliero sarà bello e ben riconoscibile, avrà tante vele aperte e più promette una situazione generale ottima, con giornate di sole e piene d’ottimismo, piogge scarse. Un tantino meno distinguibile, con meno vele aperte assicurerà un annata discreta, con qualche imprevisto risolvibile, meno sole e più pioggia. Se apparirà un po confuso e con vele strette l’annata sarà assai piovosa e la situazione generale rimarrà più o meno la stessa. Se non si noterà affatto una barca allora si faticherà molto e si raccoglierà poco. Attenzione però, Il veliero a mezzogiorno inizierà a scomparire per cui “la sua lettura rivelatrice ” dopo non sarà più possibile.

Realmente com’è che un albume forma la barca di san Pietro? Per un fenomeno di cambio di temperatura! L’albume, che ha una densità maggiore dell’acqua prima tende ad affondare; durante la notte con l’aria più fresca, l’attrazione della luna e la rugiada la chiara crea tanti filamenti e allo spuntar del sole, a mano a mano che l’acqua si scalda il bianco d’uovo filamentoso sale verso l’alto e nel risalire si apre a mo di vele.

Buona notte e dolce risveglio

Ho già messo la caraffa esposta alla luna. Domattina saprò se San Pietro avrà fatto la “magia” e vi saprò dire se….

bydif

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La ricorrenza della solennità dei Santi Pietro e Paolo Apostoli e patroni di Roma nasce dalla tradizione che vuole i due apostoli giunti dalla Giudea a Roma nello stesso periodo e martirizzati lo stesso giorno, anche se in luoghi diversi. Pietro venne crocefisso a testa in giù presso il circo di Caligola in Vaticano. Paolo invece decapitato alle Acque Salvie all’Ostiense. Si racconta che il suo capo mozzato fece tre rimbalzi da cui sgorgarono tre fonti e successivamente vi vennero edificate tre chiese. Il 29 giugno con uguale onore e venerazione In tutto il mondo si celebra il loro trionfo. Alcuni storici peròritengono che i due Santi non furono ne martirizzati il 29 giugno ne contemporaneamente e che in realtà la scelta del 29 giugno è legata all’antica festa divinatoria romana del  Quirino, celebrante i due gemelli Remo e Romolo.

Pietro deriva dall’aramaico “kephà”, tradotto in greco “pétros” e significa “saldo come una pietra, roccia”. Pescatore diventato Apostolo di Gesù fu scelto come “roccia”su cui gettare le fondamenta della chiesa, di cui fu il primo papa. E’ il santo patrono di muratori, ciabattini, orologiai, pescatori e per via delle chiavi dei portieri.

Secondo una antichissima leggenda popolare i pescatori che vanno in mare a pescare nel giorno della sua festa si imbattono nel diavolo che scatena una tempesta, per questo scaramanticamente molti pescatori escono in barca.

Paolo invece deriva dal latino volgare paulus “piccolo”

San Paolo detto l’apostolo delle gent, originario di Tarso fu prima persecutore dei cristiani poi incontrò Gesù Risorto  sulla via tra Gerusalemme e Damasco si convertì e predicò ai Giudei e ai Greci Cristo crocifisso. -da ciò nasce il detto “fulminato” sulla via di Damasco. E’ patrono dei cordai, teologi, panierai, cestai, di chi si occupa di stampa, viene invocato per allontanare le tempeste, a salvaguardia di pericoli dei morsi di animali velenosi.  San Paolo ha anche fama di “esorcista” o guaritore dei tarantolati.

San Pietro e Paolo sono due santi  fondamentali nella la storia della chiesa in quanto   costruttori di quelle radici dalle quali si alimenta continuamente la fede cristiana.

Qualsiasi libertà si conquista con la verità.

In questo mese, con i gay pride, il mondo si è tinto di arcobaleno. Un arcobaleno di uomini e donne che in maniera vistosa, spesso eclatante, con sfilate, feste, incontri esibisce la propria diversità, rivendica il diritto ad una propria identità, a vivere la vita svincolata da ogni genere anagrafico, da qualsiasi criterio codificato di amore, famiglia, sessualità, contestualizza pubblicamente l’orgoglio di appartenenza alla comunità L G B T

Ben vengano le manifestazioni di sensibilizzazione ai diritti e alle libertà espressive di qualsiasi individuo in ogni ambito della vita a patto che…a patto che non manipolano le libertà altrui. Malauguratamente succede. Succede che nel reclamare un riconoscimento ad un proprio modo di vivere, un rispetto all’essere, al pensare e agire secondo la propria indole, chi sollecita e pretende un diritto talvolta abusa o calpesta quello di un altro. Ultimamente è successo proprio nella mia natia città.

Nel manifesto promozionale di Omphalos, chissà come chissà perché, sotto la scritta : Perugia Pride Village 2017 -si scrive laico- si legge libero è finita un immagine di donna che inequivocabilmente evoca alla mente la Madonna. Gli organizzatori si sono affannati a smentire l’ innesco esplosivo affermando che ”non si tratta di una Madonna ma di una semplice Drag Queen” e ciò mi manda fuori dai gangheri perché mi enuncia tanta ipocrisia e scarsa verità.

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Ci vuol proprio una faccia tosta a asserire che quella donna provocante con l’aureola che irradia raggi gialli, la testa di bianco velata che tiene in mano un cuore rosso non ha niente da spartire con l’iconografia di Maria. É un insulto a qualsiasi individuo con un minimo di intelletto. E’ la classica icona del cuore immacolato di Maria universalmente nota! In più, se è la figura di una “drag queen e solo la mente contorta o becera ci vede la Madonna quello slogan : si scrive laico si legge libero… che ci sta a fare ? Non avrebbe ragion d’esserci. Ma c’è. C’è e sottolinea la scelta in contrapposizione con la chiesa e smentisce il pretesto della drag queen!

Aldilà d’ogni considerazione e sentimento moraleggiante anche il più tonto comprende che l’immagine sulla locandina allude a quella arcinota della Madonna ed è e resta una scelta precisa di comunicativa ideologica. Lecita? Giammai lecita! Non può esserlo, neanche in un contesto che della provocazione esacerbata ne ha fatto e ne fa una bandiera. Non si esige sensibilità a legittimare le libertà di essere quello che si vuol essere, drag qeen, gay, lesbica, intersex e quanto altro a ognuno gli va di essere, urtando l’altrui sensibilità. Inoltre, quando un messaggio propagandistico si avvale di vie improprie, per richiamare la partecipazione a un evento o estrinsecare un proprio diritto, oltre che risultare ambiguo infrange proprio le regole di rispetto reciproco che promuove. Eppoi …

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Eppoi, se non ci fosse nessuna attinenza con l’immagine di Maria, i dirigenti la comunità LGBT che alle critiche al manifesto hanno ribadito che “l’immagine è quella di una drag queen che avendo una natura artistica fa del travestimento una forma di intrattenimento” come spiegano la foto-post con  eloquente precisazione: come promesso, un pride della madonna, condivisa ieri sulla pagina facebuk di be queer official? Che il travestimento scelto è per un passo avanti per l’integrazione della comunità Lgbt nella società” !

Vero è che non è la prima volta che qualcuno utilizza un immagine legata a un culto per sollevare un opportunistico polverone in quanto è notorio che fa presa mediale e chissenefrega se il richiamo per pubblicizzare un avvenimento aggregativo è quanto mai spregevole e privo di rispetto per diritti altrui. Così ruota il mondo. Tuttavia quello che mi resta sempre difficile è comprendere il perché certi privi di idee geniali pescano sempre nel sacro per promuovere il profano. Se poi a a farlo sono proprio quelli che battagliano contro le discriminazioni, le offese, le ingiurie, invocano il rispetto dei propri diritti… beh dire che mi si ribella lo stomaco è dire un milionesimo di quel che mi si ribella. Forse perché mia nonna, donna saggia, diceva: “se hai da reclamar qualcosa scomoda i fanti e lascia stare i santi”

Nel concludere vorrei precisare che non  è per una questione di credo e neanche di etica. E’ per una questione che considero essenziale, ovvero: qualsiasi libertà si conquista con la verità. Conseguentemente,  sebbene la scelta pubblicitaria mi è parsa di cattivo gusto, ben altro poteva scandalizzare e semmai offendere il mio senso credente. Quello che mi è risultato disgustoso e fastidioso è il ridicolo menzognero. Sono state le scusanti alle inevitabili critiche suscitate dal manifesto. L‘ambiguità nel rispondere all’accusa di improprietà pubblicitaria a chi chiedeva chiarimento. Il constatare la maliziosa disposizione al ripiego per non ammettere una scelta tanto evidente. Se c’era il coraggio che un immagine ieratica doveva evidenziare una scelta di autonomia agnostica contro quella di dipendenza a un principio etico-religioso ci doveva essere anche l’onesto coraggio di ammetterlo. Altrimenti…il tutto assume una forma di camuffata panzana, ben confezionata ma sterile e contraddittoria al rivendicare qualsiasi libertà personale.

La parola laico viene dal greco – λαϊκός laikós- cioè “uno del popolo”. Che si appartenga al popolo arcobaleno o a quello incolore… si è laici e liberi nella verità.

bydif

 

 

La notte di san Giovanni, la notte senza inganni.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, san giovanni battista giovane 1602

La notte che precede la festa di san Giovanni Battista, l’asceta predicatore che battezzò Gesù e fu martirizzato con decapitazione per ordine turpe di re Erode Antipa, è la notte più breve e veritiera dell’anno.

Da sempre considerata la più rituale, luminosa, magica e folkloristica  ormai non c’è paesino, compreso il mio con “la guaz de van”, in cui la fantasia popolare non  spazia tra sacro e profano per organizzare fiere e festicciole di richiamo aggregativo. 

Tanti sono i riti prosperati dall’immaginario collettivo su questa notte. Alcuni provengono da preesistenti cerimonie pagane legate al solstizio, allo sposalizio della luna col sole, ecc che si sono fusi e confusi con quelli che precedono il giorno della nascita del Santo. È arcinoto che nei riti si va dai propiziatori come i falò, i bagni di guazza, di acqua, di luce solare, a quelli che si intrecciano a superstizione con streghe, sortilegi, sabba, magie; a quelli evocativi di leggende antichissime con fate, fiori, mietiture, frutti e spose a quelli purificatori della terra e del se; a quelli divinatori di amori e innamorati a quelli di raccolta di erbe officinali, di scongiuro, di protezione, di meditazione, di esposizione alla luna, di preparazione di liquori a quelli di carica magnetica di pietre, liquidi, persone.

Si può dire che la notte di vigilia della nascita di Giovanni il Battista è la notte in cui a tutto è dato un potere straordinario, in cui tutto nel bene e nel male reso possibile, una notte a cui tutti e tutto possono attingere energia positiva da utilizzare per rigenerare, purificare, risanare ma anche trarre forza negativa da impiegare per scopi opposti come distruggere e maleficare, quindi la notte dove luce e oscurità si sfidano. Come dire che a ogni essere vivente o cosa animata e inanimata è data la possibilità di scegliere da che parte stare, o da quella chiara del bene o da quella scura del male, non ci può essere tergiverso, via di mezzo o mescolanza, perché come recita un vecchissimo proverbio, “ a san Giovanni non sono ammessi inganni.

È la notte della verità a cui a nessuno è dato sottrarsi. La notte chiarificatrice di ciò che si è in rapporto a se stessi, agli altri, alla natura al cosmo. Quella in cui l’uomo volge tutta la sua attenzione alle meraviglie del creato: colori, profumi, gioia allegria, ritrova quella leggerezza di corpo e spirito che ridona armonia e equilibrio. Una notte prodigiosa che avvera l’impossibile tanto che come affermava Shakespeare anche i sogni sono veritieri.

È in questa notte che v’è racchiuso quel segreto e magico potere nel quale da mezzanotte al sorgere del sole in una brocca di acqua si può vedere con limpidezza riflessa la propria anima, con tutti i suoi turbamenti e complessità, scoprire il vero volto di se stessi con ciò che di sbagliato si porta appresso nell‘intimo e ha la possibilità muovendo l’acqua di liberarsene e iniziare un nuovo cammino interiore che troverà il suo perchè al solstizio d’inverno. 

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Buona guazzata a tutti!

bydif

……in altri post  ricette del nocino e del ciliegino, l’acqua odorosa, le erbe notizie sul Santo e altre tradizioni.

.nel’immagine in alto: san Giovanni Battista giovane – del Caravaggio

in basso:le mie erbe e fiori

Sette e mezzo?

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Sette e mezzo? Uhm.
Si è data 7 e mezzo la grillina per il suo primo anno da sindaca capitolina
Uhm..appare un tantino da impudente e parecchio da saccente
considerato che in città neanche col binocolo truccato
un romano verace riesce a vedere un qualche risultato
di quelli che sui media la sindaca si è auto pifferato
Certo niun logico romano si aspettava una sindaca da miracolo
A essere attenti si notava bene che non era una fuoriclasse da prodigio
con quel suo dire pomposetto imbottito di distinguo illibato
depurino di un sistema corruttivo svuota casse riempi tasche
strizza l’occhio all’amichetto ingordino e strangola diritti al cittadino
Tuttavia nemmeno credeva che arrivasse a imbrogliar se stessa
gongolando che col suo intervento stellato 
decoro e legalità ribrilla in ogni angolo
Per magnificare un effetto che anche ai romani più cecati sembra gonfiato
di buca in buca saltando i cumuli di monnezza
deve essere finita in una realtà espansa
O…forse
nella laudazione s’è scordata che non è stata eletta per un valore certo
è stata eletta  come prova d’occasione di popolar capitolina disperazione
Comprendo la debolezza umana
e un punto di vista da super women la realtà squadra bensì…
bensì con un pizzico di modestia oggettiva
almeno un po’ con quello dei cittadini collimava
Per dirla in breve
a un 3 assai più calzante la verità dell’ operato avrei applaudito
a un 4 storto il naso e a un 5 ingoiato un antiacido a un 6 mai ho pensato ma…
Ma stimato che i malanni della capitale putridano dai tempi de sor romoletto
e cambiar volto a una città sfregiata
era ed è impresa notevolmente complicata
che neanche un mago testato poteva ottenere in un anno un simile decantato
un sette e mezzo … beh mi sento proprio un romano coglionato
Al dunque cara Virginia se l’umiltà ti difetta nel calcolar un voto a te stessa
la prossima volta se ci sarà una prossima volta
almeno sii fedele alla sbandierata differenza pentastellata

green carpet capitolino

Comunque ha ancora 4 anni per dimostrare quanto vale il suo saper fare

 Per il bene di Roma e dei romani  almeno al sette e mezzo le auguro di arrivare

bydif

C’era una volta un paesello

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C’era una volta un paesello  bello, bello, da far invidia anche al passante più distrattello. Un paese in cui tutti lavoravano, mangiavano, poco ma mangiavano, miglioravano e tutti facevano progetti per se, i figli, gli amici, la comunità. In questo paese c’era un gran branco di pecore che brucava beato solo l’erbetta del suo prato. Un giorno il gran branco di pecore stufo della solita erbetta iniziò a guardarsi attorno per capire come girava il mondo e se c’era qualche erbetta più appetitosa. Guarda su, guarda giù, prati e monti sembravano tutti uguali, sennonché, qualche pecora scaltra, assaggia assaggia scoprì che l’erba da brucare non era tutta uguale, ce ne era certa un po’ nascosta ai più che ingrassava assai di più. Così, un po’ alla volta, pecora, su pecora, mangiando mangiando il grande branco si scompose e pecora, su pecora si scisse in tanti branchi. Uno di questi branchi, il profittatore, iniziò a speculare sull’erbetta rivendendola a gruppi di pecore di altri paeselli e alcune pecore, più astute e avide, non accontentandosi dei guadagni collettivi, segretamente e in modo che fosse impossibile al branco risalire al misfatto e accusarle di frode, smerciarono l’erbetta per proprio conto a pastori di greggi di paesi molto lontani. Il branco invece del favorino, iniziò a maneggiare e maneggiare l’erbetta per foraggiare il proprio ovile, quello di parenti, amici e amici degli amici; il branco dei fancazzisti, ovini senza senno e amanti della vita da pecora pasciuta stesa al sole, viceversa se la brucava di tutta fretta strappando con mala grazia le radici; un altro, forse il peggiore di tutti i branchi, dei raggirini, per satollarsi indisturbato la ciancischiava con belatini su belatini da intronare tutte le pecore che tentavano di entrare a far parte del branco per brucarne un po’. Solo tre branchi non si fecero fuorviare dall’erbetta nascosta ai più, quello degli onestini, tiepidini e rigidini. Il branco degli onestini continuò a brucare l’erba del proprio paesello rispettando le regole del brucare senza danneggiare i prati, insegnava alle pecorelle giovincelle a comportarsi lealmente e dove non aveva competenze le spingeva a istruirsi, a frequentare greggi più evoluti, a visitare altri paesi, bensì sempre da pecore rispettose, ligie al dovere e consapevoli che l’onestà paga sempre e scavalcare, rubare, aggredire altre loro simili non è un agire da pecore corrette ma da malandrine; inoltre quando poteva si prodigava a cercare campi e prati nuovi in modo che in nessuno ovile mancasse il foraggio minimo, tanto che alla sera il branco era così stanco, così stanco che il pastore di turno non aveva bisogno del cane per farlo tornare all’ovile. Quello dei rigidini, gregge assai snob e classista, seguitò a brucare l’erba del proprio paesello con molta fiscalità e controllo in modo da sfamare il proprio ovile senza sprecarne neanche un filo, stava molto attento che nessuna pecora trasgredisse e profittasse in proprio, in più ogni giorno cercava di farne avanzare per accumulare preziosa biada per tempi meno prosperi sollevando il pastore dallo scervellamento di trovar pascoli per erba di riserva. Quello dei tiepidini, branco che mai si affannava e mai si sprecava, continuò a brucare l’erbetta senza brame e angustie di futuri, contentandosi di saziare la fame giornaliera propria e dei propri agnellini nei campetti più comodi e convenienti al pecoraio, al massimo ogni tanto toccava al can pastore scomodarsi per far rientrare nel branco qualche intrepida pecorella, o abbaiare per sparucchiare fughe ribelli di agnelli un po’ curiosi e un po’ desiderosi di emancipà le conoscenze e infiltrarsi in greggi sociali arrampichini.

Nel mentre il tempo al paesello sembrava scorrere in una sorta di strano equilibrio in cuii branchi agivano senza urtarsi e provocar sommosse, dacché: i greggi per così dire deviati dalla buona condotta si spostavano malandrinamente ma senza troppo uscire dal loro recintello frodatore e senza troppo invadere quello delle pecore tiepidine, onestine e rigidine; a loro volta i branchi dei tiepidini, onestini e rigidini agivano conservando una specie di superiorità, di flemma ottimista e un po’ cecata, non si confondevano mai con gli altri branchi e non si impicciavano dei comportamenti altrui, solo talvolta si riunivano e discutevano che sarebbe stato conveniente per il buon nome del paese porre fine all’agire malverso ma poi tutto finiva a tarallucci e vino.

Invero, in questa pastura idilliaca, chissà come chissà perché avvenne che senza intento i branchi si mescolarono e persero la loro cifra distintiva e il paese sprofondò nel guazzabuglio. Nel pastrocchio ne approfittò il branco del ciarlare che con abile oratoria iniziò in tutti i campetti in cui c’era erbetta fresca a sparlottare e straparlare. In questo gruppo del ciarlare scorrazzava qualche pecorella furbettina e qualche capretto imbroglioncello loro amico.  Nelle sieste meditarono che con le ciarle ci si poteva ricavare un profitto e forse accumulare un tesoretto di buona erbetta col quale potevano liberarsi del pastorizio, attirar ingenue pecorelle e agnellini e farsi una coorte di fedeli compagnetti per migliorare il loro status e trasferirsi in un ovile più acconcio. Così iniziarono a pensare e pensare: come fare per ciarlare e ricavare. Pensa che ti ripensa a uno glie s’accende la lampadina di creare una magica congreghetta. Scandagliò il territorio, trovò una stazioncina vecchia vecchia, ci invitò pecorelle e agnellini un po’ smarriti, un po’ credulini e un po’ maneggini. Li nutrì di favolette rottamine, di poteri avvizziti, li rimpinzò di frottole pomposine da renderli un gregge di assuefatti cretini pronti un di a ribelare il suo verso , idolatrarlo e acclararlo il più capace agnello del paesello tanto bello. Nel frattempo, in un armento, per radunare attorno a se un gruppettino di pecore citrulline, una pecora di pelo ribellino si sgolava a dire che nei campi tutto andava alla malora e ci voleva di rovescià l’andazzo dei greggi accreditati a pascere l’erba collettiva sputtanandoli sulle piazze e rimandarli all’ovile con un bel calcione nelle chiappe; in un altro gregge un agnellone sgridacchiava che bisognava aumentare la sicurezza nei tratturi, delimitare gli ovili, scacciare gli intrusi dai propri pascoli, sganciare il paese dai vincoli capestro di agnelloni egocentrici senza un briciolo di equità che poi vivevano all’estero. Daie oggi, daie domani, il ciarlare a rinculino di sproloquino, di vaffino e di sgancino, produsse nelle teste delle pecore accodate ai voleri dei pasturai e di quelle disorientate una babilonesca confusione, tanto intricata che le convinzioni nei branchi vacillarono, la tranquillità andò a farsi fottere e nel paesello lo scompiglio iniziò a regnar sovrano e nessuno più capì chi era pecora e chi cristiano.

A sto punto della storia, nel paese tanto bello si creò un tal dilemma generale che per le strade ognuno si guardava e non capiva se era ancor pecora o umano, o se era ancor umano o pecora. Uh come si scrutavano e come non capivano a quale insieme appartenevano! In breve, umano o ovino, divenne nel paese l’ alternativa da sgrovigliare ogni mattino. E, fosse pecora o cristiano, al sorgere del sole ognun si dilemmava da che parte andare, a brucare o a lavorare? Se vado a brucare e non son pecora che succede? Se vado a lavorare e sono pecora che avviene? Il rischio di sbagliare a quale “gregge” accodarsi e attirarsi una fiumana di sghignazzi dei foresti era grave, anche perché tutti i leader vecchiarini e i pecorai guardarini dubitavano chi essere chi e chi portare a lavorare o a pascere. Così ovini e umani nel dubbio di farsi coglionà iniziarono a camuffare le abitudini. Al mattino le pecore gutturando strani vocalizzi si sedevano al bar a ciarlettare, gli umani belando, belando se ne andavan a saltellar su e giù per campi con somma gioia dei can pastori che vista la baraonda ne profittavano chi per una giterella di relax, chi per sconfinà in pasciure estere, chi per ringhiasse in libertà. Solo un can pastore arguto e navigato non perse la bussola. Si mise al centro del paese e cercò di sbrogliar il caos e riportar l’ordine di identità. Ma più latrava e cercava di rinsavir pecore e umani e più uni e altri lo sfuggivano pensando che li gabbava. Fatto sta che per le ciurlerie di un branco tutti avevano perso la loro caratteristica natale e il paese a poco a poco si perdeva oltre la nomea anche il carisma internazionale. Infatti, nel mentre che nessuno più conosceva chi era e come doveva comportarsi e solo il can pastore si sgolava senza riuscir a ricomporre la condizione nei ranghi del genere originario, successe che la situazione ingarbugliata non sfuggì a qualche occhio di passaggio, piuttosto loquace e anche invidioso che sobillò in qualche orecchio la crisi identitaria, quasi di catalessi che imperversava nel paese. In un baleno nel circondario e anche oltre si alzò un polverone di vociferii populini che rese il paesello un vero spasso da cuccagna da attirar frotte di gruppi foresti assai furboni. Prima vi piombarono i falchi che si sollazzarono a comandà a umani e pecore di far quello e questo col cavillo di risolvere il loro dilemma nel mentre li fregava assediandosi nei meglio ovili, case, campi e quant’altro gli allettava la loro brama conquistera. Poi accorsero tipi senza arte ne parte per magnà a sbafo e zimbellà pecore e umani. Infine il vocio stratosferico attirò una masnada cosmopolita che trasformò il bel paese in un vero reticolo di via vai di colori e idiomi da fare impallidir la bandiera rimasta appesa al pennone dell’ovil capannone municipale. Il can pastore, unico rimasto lucido, si disperava e si scotennava il pelo sul come fare per districare l’imbroglio causato dal branco dei ciarlini, dei vaffini e dei sgancini visto che le pecore, per non prendersi gli sghignazzi dei foresti ciarlavano e gli umani per l’angoscia di essersi accodati alle pecore e non essere derisi belavano. Chi poteva rendere limpida e chiara l’identità e ripristinare le categorie d’appartenenza in modo da sgombrar il paese dalla masnada di intrusi, sbafatori e profittatori?…! La situazione gli sembrava irrisolvibile. Poi, con il po’ di senno rimasto malgrado gli anni si disse: una scappatoia c’è, però mi urge trovar un intermediario suadente a cui ovini e umani s’affidino senza timore dì esser sollacciati ma…Ma il problema era scovarlo.

Mentre il vecchio can pastorizio investigava a destra e a manca se almeno a una pecora e a un cristiano gli era rimasta la coerenza identitaria, ecco che in paese compare un eremita trascinatore e perspicace che si era allontanato dal mondano un po’ schifato e un po’ costretto da maldicenza sul suo operato, che stufo di starsene a medità in solitario voleva ripristinre un po’ di social contatto. Da acuto razionalizzò subito l’accadimento e per niente scosso dal bailamme tra umano e bestiario arguì che se voleva comunicare coi suoi simili era necessario rompere l’imbroglio vizioso che nel paese s’era creato. Con sveltezza da far invidia a un cronomen collaudato si mise a belà con le pecore per farsi seguire nei campi a ribrucare l’erbetta e a parlà coi cristiani per farsi seguì e ripiazzarli ai propri compiti quotidiani. Ci mise qualche giorno ma senza perdersi in cincischie riseparò ovini e cristiani e riportò i “greggi” ognuno a comportarsi in base al criterio di madre natura. Tuttavia il paesello immobilizzato dal travisamento identitario era tracollato nel caos. Nelle strade l’immondizia appestava, sorci e canaglie scorrazzavano, ciuchini e fannulloni sozzavano. spioni e inetti sovversavano, foresti e strapiantati ovunque culi e lingue parcheggiavano. Quindi ci voleva una scossa che terremotasse le chiappe di tutti per ripulì il paese e liberarlo da tanto sfascio. L’eremitico, con fare diplomatico, sondò il pensiero dei compaesani sulla situazione ma quasi tutti risposero che non c’era alcun problema, eppoi avevano altro da pensare e fare che occuparsi di sgombrà dal sudiciume le piazze, che ci pensassero quelli a cui avevano pagato le tasse. A tal risposte, li per lì il solitario, assai civico e cultore estetico, pensò di rifuggire sui monti a contemplare le bellezze e godersi i profumi dei boschi, benché si disse che non poteva fare lo gnorri e andarsene senza riprovare a scandagliare se nella comunità esisteva almeno uno che come lui pensasse che il paese era ridotto a uno schifo da disonorasse. Animato dal fervore utilitino girò il paese in lungo e in largo. Ovunque constatò che con il suo semplice stratagemma tutte le pecore erano rientrate nel proprio branco e pecorai e can pastori le pasturavano senza drammi. Tutti gli umani si erano sconfusi e ognuno aveva ripreso il suo posto comunitario. Si sentì ringalluzzito e si disse: ho fatto bene a rientrare nel paese, con la pazienza e sapienza eremitica accumulata posso servire anche a cambiar l’apatia dei paesani verso i problemi generali, renderli partecipi rasettatori ambientali e restituire un po’ di dignità che a un paese non fa mai male. Però un qualcosa gli rodeva l’animo. Non capiva bene cosa gli disturbava l’ introspettivo. Nondimeno sapeva di avere un fiuto sopraffino che non sbagliava mai, quindi c’era un qualcosa nel paese che aleggiava però il nocciolo della questione gli sfuggiva. Per afferrare che c’era che gli scuoteva l’animo decise di rifare il giro. Ripercorse in lungo e in largo il paese visionò ogni angolo e sbirciò pure oltre confine per meglio capire. Rivide le torbe di giovincelli che oziavano, i ragazzini esauriti e quelli che giravano ridacchiando, le giovinette dagli occhi tristi che ciondolavano e quelle truccate che adescavano, donne che correvano zoppicando e mamme che strascicavano i figli in un traffico forsennato, omi che a occhi bassi strisciavano i muri elemosinando e omi sudaticci che gongolavano, vecchiette che riempivano le sporte sfilacciate rimestando negli scarti dei supermercati e signorone che al caffè conversavano. Oddio barlumò, i miei bei tempi non so come ma di sicuro son tracollati, il paese non è più una fucina di occupati, troppi non lavorano e mangiano e molti manco s’azzardano più a fare un progetto, tuttavia non per questo mi posso sentire un rodio intimo da non dormire. Forse l’eremitaggio ha cambiato le mie antenne fiutine e esagero, concluse. Poi …

Poi vide: un folla accalcarsi attorno a uno stagno puzzolente da mandare all’altro mondo che stava ad ascoltar rapita un cafone blaterone che neanche una formica gli avrebbe concesso un minimo di attenzione; una massa di omini e donne che si accapigliava per un posto in una tribunetta dove un figuro da un piedistallo sbracciava e snocciolava una fiumana di invettive che nessuno poteva capir a che si riferiva ne tantomeno come e quando agiva e neppure a chi serviva; una piazza stragremita di gente smagrita e malvestita che impalata sotto una bomba d’acqua ascoltava adorante il farneticare di un fringuello cervellone che affermava di consumarsi giorno e notte le meningi per far solo i loro interessi ma indossava vestiti e scarpe che costavano un occhio della testa e un orologio che al venderlo per anno una famiglia ci sguazzava; infine, in un parchetto zeppo di tende, di rifiuti, di cani, gatti e randagi avvistò gente sparuta che applaudiva un trio che gli schiamazzava sul come riorganizzava in meglio la loro vita ma il dire che sentiva  di tutto sapeva meno che di giustizia e democrazia. Fu allora che capì il rodiò. Era lo stesso che lo aveva convinto a ritirarsi in romitaggio. Il paese era bello bello da far invidia anche a un santerello ma oggi come ieri si poteva scannà bensì non poteva cambiare mentalità a una massa di pecore beone. Quindi capitolò l’idea di rimettersi in pista e di tutta fretta se ne tornò al suo romitorio a gustare il sole nascente, i tramonti cristallini, i profumi dei fiori selvaggi, l’acqua gelata dei torrenti alpini, le bacche dei pruneti, i silenzi delle dure pietre.

Lasciato che ebbe il paese al suo destino garbuglio, gli aspiranti pasturai del popolo si sentirono assai sollevati, sapevano che l’eremitico era assai più di loro carismatico e anche un tantino di spirito più dignitoso e franco, averlo tra i piedi sarebbe stato un guaio, comunque la faida tra loro continuò. Il tizio illogico soffiò, soffiò di essere bravissimo a cambiare a tutti un po’ la vita ma inutilmente si sfiatò; il vituperaio strillò strillò che lui non era un burattinaio da profittasse il popolo ma neppure il suo gatto lo cagò; il trio cantò di dare a tutti un po’ ma poi si tenne tutto per se; il cafone ciarlone imbonì i branchi d’omni di esser il miglior guidatore sulla piazza ma assisosi sulla vetturetta prese una curva storta a gran velocità e si fracellò. Al dunque, il suo ritiro a nessuno giovò, ognuno si rivelò un flop.

Dopo qualche mesetto l’eremita ridiscese per comprare un paio di calzari che gli s’erano ammollati e non si stupì affatto di sentire solo belati. In fondo pensò il paese anche strapieno di pecore è bello che più non si può! Mentre fischiettando felice se ne tornava al suo amato eremo, da un angolino il vecchio can pastore che non aveva perso il senno, tornato in paese e ormai da tutti ignorato, con gli occhi lucidi sospirò. Beh che c’è abbaiò a una pecora che lo guardava..In fondo  è  il pastoraio più eccellente che un gregge abbia avuto!

pecore-

By dif

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