SANTO SACTORUM

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Ho una vera fobia per i sensi unici, ogni volta che ne imbrocco uno mi viene la pelle d’oca, subisco un effetto freudiano, lo associo a un grande budello che mi ingoia togliendomi la libertà di cambiare, un obbligo costrittivo ad andare nella stessa direzione di chi precede o segue senza scampo finché non trovo un buco, a destra o sinistra, per svoltare e liberarmi dall’incubo onirico di una traiettoria inversiva.

Ieri sera, nel seguire in streaming l’evento clou organizzato al pala Dozza di Bologna dal santo paladino della crociata della libera parlantina, protettore di tutti quelli che sono d’accordo con lui e portatore di rogna a quelli che pensano con la loro testa, cioè gli irriducibili “sovversivi” dell’informazione a senso unico, ho avuto le stesse sensazioni. Nonostante la mia innata repulsione, sopportavo gli effetti collaterali dei piatti serviti, dal santo eroe delle crociate dei talk show provvisoriamente oscurati, tutti a senso unico anti berlusca, seppure conditi con varie salsine, tipo sproloqui di qualche invitato dovuti a effetti allucinogeni o di devozione e ammirazione al gran maestro pedagogo della libertà, fin quando sulla scena non è spuntato un tale. Mi pare un  comico satirico, invitato dal santone semidio a pronunciare il suo oracolo anti oscuramento talk show e non ha trovato di meglio nel suo ristretto culetto di cervello di fare esempi strampalati, oltraggiosi per chiunque ma principalmente per le donne. Altro che pelle d’oca, mi è venuta l’orticaria. Nella pagliacciata benedetta dal santo sanctorum e applaudita da “pusillanimi piazzaioli” che applaudivano anche la cacata di una mosca pur di sembrare trendy e fedeli discepoli dei rituali del sadhana, nessuno ha ravvisato un che di volgare e disgustoso da fargli spendere due parole, dico due non mille, a salvaguardia della dignità femminile. Neanche uno ha percepito che l’esempio “lolito” mimato, prima di insultare il premier, violava figlie e compagne di vita. Considerarlo un professionista della satira è un insulto ai veri professionisti del settore. Nessuna causa per quanto giusta e nobile giustifica di andare “oltre”, utilizzare a propri fini spettacolari e con disprezzo la dignità umana. La sozzura è sozzura, rimane fetida, anche se ci spargi sopra ettolitri di profumo. Nulla mi scandalizza ed amo la libertà di parola e di pensiero più d’ogni altra cosa, non posso accettare per nessun motivo l’oltraggio all’essere umano, direi le stesse cose se al posto del corpo femminile avesse usufruito di quello maschile, è una questione che esula dal sesso d’appartenenza. Nessuno mi venga a dire che ciò che ieri sera un simile invitato ha detto serviva a rischiarare le menti sul problema dell’oscuramento temporaneo dei talk show, direi che se uno aveva dei dubbi, se era giusto o ingiusto sospenderli in periodo elettorale, li ha eliminati, un simile spettacolo non è auspicabile che entri nelle case mai. Se quel tale è otto anni che sta fuori dai canali che ci rimanga per sempre, nessuno perde niente. Lui ha centomila diritti di esprimersi ma nemmeno uno di fare similitudini allusorie utilizzando la dignità delle persone.

Oggi mi son presa la briga di leggere tutti i principali quotidiani non perché mi fosse venuta una voglia primaverile di lettura illuminata dai guru dell’informazione sulla kermesse, speravo tanto ma proprio tanto, di trovare almeno una riga di rigetto all’affronto alle donne.  Nisba de nisba, come al solito, ho potuto leggere contro la divinazione dell’invitato all’apoteosi del santo sanctorum. Il massimo che ho trovato sono stati “richiami sessuali anali”. Nessuno ha scritto che era satira trivia e grossolana, un’offesa nauseante all’individuo donna, nessuno ha avuto almeno il coraggio di scrivere l’imbarazzo che si leggeva sul volto delle due malcapitate giornaliste presenti.  Avrei dovuto saperlo che giammai, quando si tratta di donne, i “guru” dell’informazione hanno la sensibilità di cogliere il lato offensivo, alzano gli scudi, scrivono e riscrivono sulla donna trattata come oggetto di consumo, solo quando gli fa  comodo, solo per convenienza. Considerare la sua pantomima come espressione hard, mi è apparsa ancor più grave, significa che impera l’ipocrisia, la paura di essere tacciati da bacchettoni, il menefreghismo non solo verso la donna, un modo di sorvolare la questione per non contraddire un sistema dove la persona conta nulla, è uno share del 13% di qualche profeta. Un vero schifo, al confronto la mia fobia freudiana sul senso unico è uno zuccherino.

 

I CACTUS…REGIONALI

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Con tutto quello che è avvenuto, si  è sentito e letto ormai le regionali sono diventati “cactus” del pd e del pdl
Ognuno per conquistarle dice, stradice e si contraddice
Ma chi riuscirà ad imbonire meglio gli elettori e ad aggiudicarsele?
A detta del leader pd il vento va nella sua direzione
secondo il leader del pdl tira dalla sua
Il vento di solito spira dove gli pare, a tutt’oggi non mi risulta che nessuno scienziato sia stato in grado di “imbottigliarlo” o qualche mago abbia catturato il suo spiritello
Per sapere chi si aggiudicherà il governatorato delle regioni in ballo basta contare i cactus:
 i grandi cactus se li prende il grande
i piccoli cactus li arraffa il piccolo
agli altri
andranno le spinette che perdono
Ma
chi è il grande?
e chi è il piccolo?
Questo è il rebus
da risolvere

NEL SILENZIO PAPA’

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nel silenzio del giorno

percepisco

la tua voce

nel silenzio della notte

percepisco

 il tuo respiro

nel silenzio del pensiero

percepisco

il tuo amore

nel silenzio degli occhi

percepisco

l’imparzialita’

 nel silenzio delle labbra

percepisco

 il richiamo severo

nel silenzio del mondo

ti vedo

 a fianco papà

nel silenzio del sole

 percepisco

l’indissolubile

bellezza

d’un amore filiale

la gioia

di trovarsi

oltre il silenzio

in verità

chiusa nel  silenzio

dei passi

in luce d’ aurora

papà

  ti  ritrovo sempre

nel silenzio  

quieto d’un monte

di un fiore

 nel vento

che mi sfiora

ogni volta

che ho urgenza

di te

  ti  ritrovo nel silenzio  

del cuore

papà

…………………………………………….

dif

dedicata a tutti i papa’

MULINELLA LA STONATA

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La tiepida e assolata giornata invogliò Mulinella la fanciulla stonata ad uscir di casa, inforcò la bicicletta bianca da poco comperata per pochi spiccioli in uno stock fallato del discount e pedalando beata si inoltrò nel cerreto lasciando che il sole le accarezzasse la pelle ingrigita dal lungo inverno e da notti insonni, rotolate tra lenzuola troppo ruvide e un materasso deformato dal battipanni che ogni mattina usava per scacciar gli acari, a suo parere causa d’ogni tormento notturno, si infilavano tra le ciglia con i loro aguzzi tentacolini per impedirle di chiudere gli occhioni grigi azzurri sempre stralunati. Neanche spellata avrebbe ammesso che a tormentarla non erano gli invisibili parassiti ma i ghiribizzi che gli frullavano davanti agli occhi simili ad una specie umana erculea che si contorceva e sudava tanto da gocciare come i cenci del bucato appena stesi o come il vicino Rossicino quando si azzuffava col Nerino. Mulinella pedalava e pedalava inebriata dalle sensazioni che la sfioravano senza soffermarsi con lo sguardo su nulla e con la testa inaridita, come se all’improvviso il cervello si fosse fuso e sole e vento si fossero alleati per farla andare e andare all’infinito senza bagaglio e senza meta. Andando, andando superò il cerreto e si trovò in un luogo inbrullito dal gelo che ai suoi occhi sembrò il paradiso e si disse: “devo aver pedalato assai assai per  anni.”  Poi sfiorò  i lunghi capelli, il viso le braccia,  si toccò e ritoccò, frugò ogni angolo del corpo ma non trovò nulla di diverso. 

Scese dalla bicicletta bianca fallata, si sdraiò  in mezzo alla stradicciola  sbalordendo  un tordo in siesta sul  ramo di un  pioppo, guardò in alto raggiante d’essere arrivata nel giardino delle delizie senza sfacchinare e senza perdere l’aspetto suo. Con i suoi occhioni stralunati scrutò per vedere chi c’era lassù, vide una nuvoletta grigia che tentava d’oscurare tutto, le parve il facciotto d’un tale cassinista  appiccicato all’angolo del paese che la braccava con  telefonate, dispacci e preghierine  blaterando  che l’aspettava  al centro. Chissà se della piazza o della rotonda.  Stonata com’era non aveva afferrato. Intanto una cornacchia ballonzova sguaiata nel cielo d’un azzurro simile alla bandiera di Pupette. Ogni giorno la sventola per un cavallerizzo amico suo, un  poveretto che bazzica tra Roma e Milano,  stracotto da spioni sciamani, abachicchi fricchettoni,  fattucchieri infiltrati nei capezzoli d’una mamma santona che per stupettare  si son venduti pure la nonna. A  Mulinella sembrò che la  cornacchiona svolacchiante somigliava a un tale stogattato che aveva visto in un fumetto a casa della Nocciolina coperto da segnacci,  le parve che tra gli unghioni teneva  il povero Rossicino spelacchiato dal forzuto Nerino e gli  crocidava che lo teneva stretto  cosi  insieme potevano ingozzarsi  l’adone di Pupette buttando i resti  nel fosso del castello in cima al colle e tanto che c’erano potevano incolpare  l’ospite che vi soggiornava perchè cricchiava stonato. Il Rossicino  intontito dal garbuglio  degli sproloqui dell’ingorda annuiva, però non capiva  perché s’era bardata con  una sciarpa viola, uguale alla stola  quaresimale di don Ugetto e non con quella rossa. Poveruomo pensò la Mulinella  deliquiava se non capiva che l’insolente se l’era messa per aumentare la iella al cavallerizzo. Il tanto crocidare  bilioso della cornacchiosa divenne per Mulinella un tormento peggiore dell’insonnia cronica da farle  girare la capa. Tentò di scacciare l’uccellaccia fischiando, per ripicca quella scese rapida  e la beccò sulla cosciotta, dal dolore Mulinella  urlò con tutto il fiato. Urlò così forte che fece sussultare la terra, sparire la nuvoletta, impietrire la cornacchia e il Rossicino mezzo strozzato,  accorrere tutti gli abitanti appresso che stavano spaparacchiati davanti alla tv a lustrarsi gli occhi con gli albergati della D’urso o di Giletti. Infatti,  corsero fuori  infastiditi, avrebbero perso gli insulti, i rinfacci i bisticci  gonfiati ad arte. Al contrario i conservatori  furono contenti di avere una scusa per squagliarsela, erano spappolati dallo zapping,  giravano come palline i canali illudendosi di trovare un  programma  stile collegio per rilassarsi  giacché erano inibiti litigi furiosi, pareri contrari, idee strane, tutto era pacioso e idilliaco e non faceva saltare  i peli dell’inguine. Invece i  dimoranti ibridi del paesucolo, intenti a sognare  mete esotiche, non sentirono l’urlo scassa timpani e continuarono a dormirsela alla grande. Anche i  paurosi rimasero appiccicati alla tv fregandosene degli affari altrui. Così solo i destrini e sinistrini stanziali del paese ancora scossi  dall’urlo selvaggio arrivarono sfiatati e mezzo vestiti  dove era partito l’urlo. Sulle prime, vedendo la  Mulinella  immobile in mezzo all’agro del Verdusso reso pantanoso dalla neve sciolta, si ammutolirono pensando al peggio e si  fecero il segno della croce in segno di rispetto, la poveretta era di certo andata nel regno dei più cadendo  dalla bicicletta,   sapevano che era fallata e solo una brocca  poteva comprarla. Poi avvicinandosi la videro contorcersi e arzigogolare con le mani sui capelli, tentava di togliersi una tacchetta sfuggita alla cornacchia impietrita, allora si rinfrancarono  e  l’assalirono di domande. Mulinella frastornata da tutte ste attenzioni insolite girò qua e la i suoi occhioni grigio azzurri,  li guardò e li riguardò e poi disse: “che bello paisà essere tutti insieme in paradiso”  Si guardarono muti come pesci, poi il piccoletto bruschino esplose: “ma quale paradiso e paradiso, questo è l’agro del Verdusso, sei proprio la solita stonata imballata !!!! Tutti capirono che avevan corso per una delle solite fole visionarie della Mulinella, le aveva da quando il suo bacarozzo era scappato con la bianchetta, inviperiti lasciarono la poverina e la sua bicicletta a terra, pronunciando un sacco di spropositi tornarono a imbottirsi di ciarlanerie davanti alla tv.

 

 

 

 

PRESENZA

 

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C’è moltissima letizia

Nel  mio oggi

So..che cammini al mio fianco

I tuoi passi sono impercettibili

La mancanza di materia

Non annulla la presenza

La parte migliore resta

 

C’è moltissima gioia

Nel  mio oggi

So..che

Il  tuo pensiero mi segue

La distanza dei corpi è solo

Un fatto marginale

Una..convenzione

Impossibilità di vederti

Correre e affannarti

Stringere corpi amati

Sfamarti  di tenerezze

 

C’è moltissima serenità

 Nel  mio oggi

La tua voce mi giunge

Placa la costrizione

Dell’impossibilità di toccarti

Parlare e scongiurare

Non partire, non andare

 

C’è moltissima fiducia

Nel  mio oggi

Seguo il vento

Vivo  nell’attesa

Di reincontrarti

Fuori  dal tempo.

 

 

 

A  te che da quel dodici marzo  sei volato oltreilrecinto

 

 

 

L’OROLOGIO QUADRATO

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Per anni la strada ho divorato

Con l’occhio incollato

All’orologio quadrato

Ho viaggiato e viaggiato

Galoppato e sbarellato

Inferi sentieri traversato

Assediati da filo spinato

Ho visto e scrutato

Albe sbiadite e irrigidite

Cieli chiari e cieli infocati

Saltato pasti e ingozzato

Caffè bollenti e chiodi molesti

Ho visto e scrutato

Crepuscoli bruni e notti incavate

              Volti bianchi e volti  crucciati                 

Piedi scattanti e piedi bloccati

Con l’orologio quadrato

Incollato a lacrime e naso

Per anni la strada ho divorato

              Ho traversato anse e serpai             

Nebbie e veleni infiltrati

Quartieri sovrappopolati

Paesi con  muli sbandati

Ho visto e osservato

Sorrisi stirati e bimbi assonnati

Alberi verdi e alberi impalati

Tormente infide e afe sgobbate

Piagge rocciose e  lande nervose

Superato spaventi e sbandate

Grovigli di serpi e fiumi assetati

Venti furiosi ed esaltati curiosi 

Per anni la strada ho divorato

Con l’orologio quadrato

Incollato al cuore spezzato

Ho viaggiato e viaggiato

Oltrepassato oceani placati

Mari rabbiosi e deserti turbinosi

Campi  rigogliosi fiumi nebbiosi

Giardini infiorati e boschi festosi

Scorto anime squartate

Volti crudeli e ghigni piegati

Occhi lucenti e mani serrate

Per anni la strada ho divorato

Incollata al vetro sabbiato

Ho viaggiato e viaggiato

Col  mio orologio quadrato

HO scavalcato filo spinato

Violentato tempo e ragione

Ingozzato  polvere e  delusione

Domandato e imprecato

Vegliato e digiunato

Pianto  e defecato

Come un vecchio soldato

In trincea appostato

Con l’occhio incollato

Al nemico giurato

Inflessibile logorio d’un tempo

Comandato da travaglio e fiato

Avverso a soste e passioni

In nome d’un dovere esaltato

Da materno senso persuaso

Ho viaggiato e viaggiato

Col mio orologio quadrato

Volteggiato tra forre e precipizi

Varcato confini e pregiudizi

Sfidato  poteri e avventurieri

Cambiato stile amanti e pareri

Consumato  mille pensieri 

Con l’occhio incollato

Al mio orologio quadrato

Per  anni la strada ho divorato

Scorticando ogni illusione

Ho rotto  l’orologio quadrato

La    strada  mi ha divorato

 

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Non sono parole a caso, sono  la sintesi di un pezzo di vita reale d’una donnamadre. L’’orologio era l’ incubo giornaliero di  un lavoro dai modi e ritmi sfrenati lontano da casa

NOI NON VOGLIAMO MIMOSE

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Noi donne non vogliamo la mimosa

Se all’indomani ci schiacci e bistratti

Non vogliamo la mimosa

Se come pupattole di pezza ci tratti

Non ci interessa oggi essere celebrate

Di rose e mimosa circondate

E domani sbeffeggiate e stuprate

Imbavagliate e compresse in ruoli laterali

Noi donne non vogliamo la mimosa

Farcita di doppiezza selezionata

Abbiamo lottato per ottenere una parità

Non ci basta un fiore donato

Sulla porta di un supermercato

Per sentirci accettate e inglobate

Equamente valutate nella società

Vogliamo il confronto d’identità plurale

Non un giorno da celebrare con un mazzetto di mimosa

Una serata in compagnia in pizzeria o in discoteca

A imbottire le mutande d’un bel lucido palestrato.

Che ci invoglia a scatenar le nostre inibizioni.

Non viviamo di ossessioni ma di realtà quotidiane.

Siamo impresarie familiari, operatrici volontarie.

Scienziate lavoratrici valorose a tempo pieno

Gli anelli di congiunzione della catena globale

Non un monopolio di mediocri assurdità

Noi l’8 marzo non vogliamo la mimosa

Ripudiamo d’esser sfruttate da bisness calzati.

Comandati e approntati con mazzetti profumati.

Mistificatori di lotte per minimi diritti

Non ci serve una mimosa per esser motivate.

Sentirci donne legittimate e appropriate

Ci serve ottenere dignità

Non subire l’ingiuria d’una diversità

Esser trattate come marmellate da spalmare.

Su fragranti fette biscottate

Masticate e assaporare al mattino

Ed evacuate a mezzogiorno

Come stronzate parafrasate

Da ottusi ciabattoni dell’informazione

Smemorati d’una valorosa storia nostra

Combattuta per protesta di condizione ingiusta.

Non vogliamo un rametto di mimosa

Vogliamo il diritto di avere un figlio quando ci pare.

Amministrare la femminilità senza limitazioni.

Essere ascoltate e valutate per il nostro fare.

Circolare in libertà in ogni occasione

Essere donne senza uniformi e pantaloni

Acquisire pari condizioni umane

Detestiamo ottenere un posto nella collettività.

Sfilando in passerella con le nostre beltà.

Rifarci labbra tette e culi per avere visibilità.

Essere succulenti contorni di tavole allestite

Come concessioni pianificate d’imparzialità

Negative d’un corretto diritto equiparato

Sfruttate da un sistema ambiguo e correlato

Represse e accantonate come pupe scervellate.

Noi siamo l’ossatura della nazione, la linfa dell’economia.

Il sangue che scorre sugli asfalti ogni sabato sera.

Sui muri, sui tetti, nei campi, nei cantieri, tra le ciminiere

Non vogliamo oggi la mimosa

E domani subire l’ingiuria d’una quota rosa.

Sottostare al potere di maschia volontà

Non possiamo inebriarci con olezzi

Rallegrarci la vista con dei muscoli

Non siamo semplicione da trastullo

Siamo guerriere piene di entusiasmo

Temprate da secoli di asprezza e disparità.

Degne d’entrare in ogni competizione

Sappiamo quando e come agire

Senza calpestare i diritti avversari

Non vogliamo la mimosa oggi

E domani essere guardate come aliene

Noi vogliamo l’opportunità di essere donne.

Senza emulare l’uomo per essere gradite

Siamo un universo di energia pratica

L’altra faccia di una stessa medaglia

Capace di lottare e soffrire senza aggredire

Non vogliamo oggi la mimosa

E domani subire l’onta della denigrazione

Vogliamo una mimosa tutti i giorni

Una mimosa che afferma i nostri diritti

Rifiutiamo un giorno di balzelli profumati.

Non ci interessa d’esser celebrate

Con feste, sorrisi e giornate chiacchierate

Mazzetti di rose e mimose donate

Ci risultan più fetide e indigeste delle bastonate.

Se l’indomani perchè donne siam discriminate

Non vogliamo oggi la mimosa

E domani subire l’ affronto d’una diversità.

Esser ricattate, maltrattate e scaricate

classificate femmine visionarie e arriviste

Che rivendicano un diritto approssimato

Non vogliamo una mimosa inflazionata

Distribuita come una bibita gasata

Noi donne ci sentiamo usurpate

Di un simbolo marchiato sulla nostra pelle

Da ave madri consociate delle nostre madri

A memoria di conquista ardua e valorosa

L’8 marzo non vogliamo una qualsiasi mimosa

Vogliamo la mimosa della specie egualitaria

Quella che all’indomani resta fresca e odorosa

Non oltraggia, non violenta non isola

noi donne.

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AUGURI A TUTTE LE DONNE CHE LOTTANO NEL MONDO PER LIBERARSI DI SCHIAVITU’ SELETTIVE

L’IMMAGINE DELLA VERITA’

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La donna raggomitolata nel suo scialletto d’un colore imprecisato, stinto dagli anni e dai lavaggi, immobile come una cariatide prima mi guardò dal bordo della fontana, mentre frettolosa attraversavo la piazza immersa nei miei mille pensieri, poi con una voce imprecisata che sapeva di remoto e d’avvenire disse: ehi, senti tu, avvicinati, ho da farti una domanda. Sai dirmi dove trovo l’immagine della verità? Io l’ho cercata in uno specchio opaco, in vette inaccessibili, in un pozzo senza acqua e fondo, non l’ho trovata. nessuno l’ha riflessa.

Mentre stranita dalla richiesta cercavo una risposta, la donna con l’occhio fisso all’orizzonte con una mano agitò il suo scialletto, scoprì uno specchio che teneva  stretto con l’altra al petto, poi senza darmi il tempo di articolare un suono vocale iniziò a raccontare:

“Ho cercato l’immagine della verità in uno specchio; non l’ho vista riflessa, troppo grigio, opaco e appannato dal mio fiato.

Allora ho cercato la verità nei riflessi dell’acqua d’una sorgente; non l’ho vista riflessa, troppo limpida e chiara.

Sono andata al pozzo a cercarla, non l’ho vista riflessa, troppo profondo e nero.

Non mi sono arresa, a  rischio della vita son salita e salita fin la vetta più alta del pianeta; c’era la nebbia che offuscava la vista e la verità non l’ho vista.

Son scesa negli abissi; c’eran troppi pesci che guizzando scomposti balucavano i mie occhi e l’immagine della verità  si è dileguata nell’acqua fosca

Son tornata caparbiamente al pozzo; mi sono sporta oltre misura per vedere se almeno c’era una goccia che riflettesse l’immagine ideale della verità, inutile, era privo di acqua che potesse acchiappare un fil di luce per diradare la mia caligine.

Allora scartata ogni logica ho messo l’immagine della verità al di sopra di tutto e per trovarla ho frugato in ogni dove, prima seguendo vie piane, poi quelle contorte e strane, infine quelle caotiche piene di alterazione dove ho calpestato a mano a mano quello che accortamente avrei dovuto pestare.

Per trovare quell’immagine che mi aprisse i cancelli della verità ho scartato il divino per abbracciare il meschino. Ho buttato anni di vita per donarla a chi ci giocava. Mi sono fatta marionetta volontaria di chi non sapeva animarla, mi sono fatta ingannare, mutilare, deturpare da chi non aveva regole e rispetto umano. Ho lasciato che anima e corpo si abbandonassero senza riserve offrendo la possibilità a chi voleva di approfittarne. Non ho saputo custodire una molecola di me. Ho permesso di togliermi volontà, respiro. Ho permesso di farmi divorare, succhiare ogni fluido di linfa. Ho accettato senza condizioni che pioggia, grandine, fulmini e tuoni potessero colpirmi. Ho offerto in olocausto me stessa a chi voleva distruggermi, polverizzarmi.

Vedi, lo specchio che oggi è qui nelle mie mani è argenteo, brillante; il sole lo illumina, imporpora la cornice dorata e il mio volto che le sta di fronte mentre cerca di carpire l’insondabile verità dell’altro volto. Ma nessuna immagine, nessuna verità, nessun volto riflette. “

Sai dirmi tu il perché?

 

La guardo strabiliata.  Nessuna immagine può riflettere lo specchio. E’ nero come la pece.

 

All’improvviso il volto in cerca di verità perde consistenza, evapora come fosse in una buca piena di acido.

 

Non so se ho captato le rifrazioni interrogative della cariatide immobile vicina alla fontana, raggomitolata nel suo scialletto nero e lo specchio stretto al petto o quelle di uno spettro  distrutto da una ricerca vana. So che la verità è una cosa strana, un’immagine ideale che non si trova in nessuna strada e la donna dalla voce senza passato e avvenire s’è dissolta prima che potessi darle  la mia risposta.

 

 

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