Archivio mensile:marzo 2010
SANTO SACTORUM
Ho una vera fobia per i sensi unici, ogni volta che ne imbrocco uno mi viene la pelle d’oca, subisco un effetto freudiano, lo associo a un grande budello che mi ingoia togliendomi la libertà di cambiare, un obbligo costrittivo ad andare nella stessa direzione di chi precede o segue senza scampo finché non trovo un buco, a destra o sinistra, per svoltare e liberarmi dall’incubo onirico di una traiettoria inversiva.
Ieri sera, nel seguire in streaming l’evento clou organizzato al pala Dozza di Bologna dal santo paladino della crociata della libera parlantina, protettore di tutti quelli che sono d’accordo con lui e portatore di rogna a quelli che pensano con la loro testa, cioè gli irriducibili “sovversivi” dell’informazione a senso unico, ho avuto le stesse sensazioni. Nonostante la mia innata repulsione, sopportavo gli effetti collaterali dei piatti serviti, dal santo eroe delle crociate dei talk show provvisoriamente oscurati, tutti a senso unico anti berlusca, seppure conditi con varie salsine, tipo sproloqui di qualche invitato dovuti a effetti allucinogeni o di devozione e ammirazione al gran maestro pedagogo della libertà, fin quando sulla scena non è spuntato un tale. Mi pare un comico satirico, invitato dal santone semidio a pronunciare il suo oracolo anti oscuramento talk show e non ha trovato di meglio nel suo ristretto culetto di cervello di fare esempi strampalati, oltraggiosi per chiunque ma principalmente per le donne. Altro che pelle d’oca, mi è venuta l’orticaria. Nella pagliacciata benedetta dal santo sanctorum e applaudita da “pusillanimi piazzaioli” che applaudivano anche la cacata di una mosca pur di sembrare trendy e fedeli discepoli dei rituali del sadhana, nessuno ha ravvisato un che di volgare e disgustoso da fargli spendere due parole, dico due non mille, a salvaguardia della dignità femminile. Neanche uno ha percepito che l’esempio “lolito” mimato, prima di insultare il premier, violava figlie e compagne di vita. Considerarlo un professionista della satira è un insulto ai veri professionisti del settore. Nessuna causa per quanto giusta e nobile giustifica di andare “oltre”, utilizzare a propri fini spettacolari e con disprezzo la dignità umana. La sozzura è sozzura, rimane fetida, anche se ci spargi sopra ettolitri di profumo. Nulla mi scandalizza ed amo la libertà di parola e di pensiero più d’ogni altra cosa, non posso accettare per nessun motivo l’oltraggio all’essere umano, direi le stesse cose se al posto del corpo femminile avesse usufruito di quello maschile, è una questione che esula dal sesso d’appartenenza. Nessuno mi venga a dire che ciò che ieri sera un simile invitato ha detto serviva a rischiarare le menti sul problema dell’oscuramento temporaneo dei talk show, direi che se uno aveva dei dubbi, se era giusto o ingiusto sospenderli in periodo elettorale, li ha eliminati, un simile spettacolo non è auspicabile che entri nelle case mai. Se quel tale è otto anni che sta fuori dai canali che ci rimanga per sempre, nessuno perde niente. Lui ha centomila diritti di esprimersi ma nemmeno uno di fare similitudini allusorie utilizzando la dignità delle persone.
Oggi mi son presa la briga di leggere tutti i principali quotidiani non perché mi fosse venuta una voglia primaverile di lettura illuminata dai guru dell’informazione sulla kermesse, speravo tanto ma proprio tanto, di trovare almeno una riga di rigetto all’affronto alle donne. Nisba de nisba, come al solito, ho potuto leggere contro la divinazione dell’invitato all’apoteosi del santo sanctorum. Il massimo che ho trovato sono stati “richiami sessuali anali”. Nessuno ha scritto che era satira trivia e grossolana, un’offesa nauseante all’individuo donna, nessuno ha avuto almeno il coraggio di scrivere l’imbarazzo che si leggeva sul volto delle due malcapitate giornaliste presenti. Avrei dovuto saperlo che giammai, quando si tratta di donne, i “guru” dell’informazione hanno la sensibilità di cogliere il lato offensivo, alzano gli scudi, scrivono e riscrivono sulla donna trattata come oggetto di consumo, solo quando gli fa comodo, solo per convenienza. Considerare la sua pantomima come espressione hard, mi è apparsa ancor più grave, significa che impera l’ipocrisia, la paura di essere tacciati da bacchettoni, il menefreghismo non solo verso la donna, un modo di sorvolare la questione per non contraddire un sistema dove la persona conta nulla, è uno share del 13% di qualche profeta. Un vero schifo, al confronto la mia fobia freudiana sul senso unico è uno zuccherino.
I CACTUS…REGIONALI
NEL SILENZIO PAPA’
nel silenzio del giorno
percepisco
la tua voce
nel silenzio della notte
percepisco
il tuo respiro
nel silenzio del pensiero
percepisco
il tuo amore
nel silenzio degli occhi
percepisco
l’imparzialita’
nel silenzio delle labbra
percepisco
il richiamo severo
ti vedo
a fianco papà
nel silenzio del sole
percepisco
l’indissolubile
bellezza
d’un amore filiale
la gioia
di trovarsi
oltre il silenzio
in verità
chiusa nel silenzio
dei passi
in luce d’ aurora
papà
ti ritrovo sempre
nel silenzio
quieto d’un monte
di un fiore
nel vento
che mi sfiora
ogni volta
che ho urgenza
di te
ti ritrovo nel silenzio
del cuore
papà
…………………………………………….
dif
dedicata a tutti i papa’
MULINELLA LA STONATA
La tiepida e assolata giornata invogliò Mulinella la fanciulla stonata ad uscir di casa, inforcò la bicicletta bianca da poco comperata per pochi spiccioli in uno stock fallato del discount e pedalando beata si inoltrò nel cerreto lasciando che il sole le accarezzasse la pelle ingrigita dal lungo inverno e da notti insonni, rotolate tra lenzuola troppo ruvide e un materasso deformato dal battipanni che ogni mattina usava per scacciar gli acari, a suo parere causa d’ogni tormento notturno, si infilavano tra le ciglia con i loro aguzzi tentacolini per impedirle di chiudere gli occhioni grigi azzurri sempre stralunati. Neanche spellata avrebbe ammesso che a tormentarla non erano gli invisibili parassiti ma i ghiribizzi che gli frullavano davanti agli occhi simili ad una specie umana erculea che si contorceva e sudava tanto da gocciare come i cenci del bucato appena stesi o come il vicino Rossicino quando si azzuffava col Nerino. Mulinella pedalava e pedalava inebriata dalle sensazioni che la sfioravano senza soffermarsi con lo sguardo su nulla e con la testa inaridita, come se all’improvviso il cervello si fosse fuso e sole e vento si fossero alleati per farla andare e andare all’infinito senza bagaglio e senza meta. Andando, andando superò il cerreto e si trovò in un luogo inbrullito dal gelo che ai suoi occhi sembrò il paradiso e si disse: “devo aver pedalato assai assai per anni.” Poi sfiorò i lunghi capelli, il viso le braccia, si toccò e ritoccò, frugò ogni angolo del corpo ma non trovò nulla di diverso.
Scese dalla bicicletta bianca fallata, si sdraiò in mezzo alla stradicciola sbalordendo un tordo in siesta sul ramo di un pioppo, guardò in alto raggiante d’essere arrivata nel giardino delle delizie senza sfacchinare e senza perdere l’aspetto suo. Con i suoi occhioni stralunati scrutò per vedere chi c’era lassù, vide una nuvoletta grigia che tentava d’oscurare tutto, le parve il facciotto d’un tale cassinista appiccicato all’angolo del paese che la braccava con telefonate, dispacci e preghierine blaterando che l’aspettava al centro. Chissà se della piazza o della rotonda. Stonata com’era non aveva afferrato. Intanto una cornacchia ballonzova sguaiata nel cielo d’un azzurro simile alla bandiera di Pupette. Ogni giorno la sventola per un cavallerizzo amico suo, un poveretto che bazzica tra Roma e Milano, stracotto da spioni sciamani, abachicchi fricchettoni, fattucchieri infiltrati nei capezzoli d’una mamma santona che per stupettare si son venduti pure la nonna. A Mulinella sembrò che la cornacchiona svolacchiante somigliava a un tale stogattato che aveva visto in un fumetto a casa della Nocciolina coperto da segnacci, le parve che tra gli unghioni teneva il povero Rossicino spelacchiato dal forzuto Nerino e gli crocidava che lo teneva stretto cosi insieme potevano ingozzarsi l’adone di Pupette buttando i resti nel fosso del castello in cima al colle e tanto che c’erano potevano incolpare l’ospite che vi soggiornava perchè cricchiava stonato. Il Rossicino intontito dal garbuglio degli sproloqui dell’ingorda annuiva, però non capiva perché s’era bardata con una sciarpa viola, uguale alla stola quaresimale di don Ugetto e non con quella rossa. Poveruomo pensò la Mulinella deliquiava se non capiva che l’insolente se l’era messa per aumentare la iella al cavallerizzo. Il tanto crocidare bilioso della cornacchiosa divenne per Mulinella un tormento peggiore dell’insonnia cronica da farle girare la capa. Tentò di scacciare l’uccellaccia fischiando, per ripicca quella scese rapida e la beccò sulla cosciotta, dal dolore Mulinella urlò con tutto il fiato. Urlò così forte che fece sussultare la terra, sparire la nuvoletta, impietrire la cornacchia e il Rossicino mezzo strozzato, accorrere tutti gli abitanti appresso che stavano spaparacchiati davanti alla tv a lustrarsi gli occhi con gli albergati della D’urso o di Giletti. Infatti, corsero fuori infastiditi, avrebbero perso gli insulti, i rinfacci i bisticci gonfiati ad arte. Al contrario i conservatori furono contenti di avere una scusa per squagliarsela, erano spappolati dallo zapping, giravano come palline i canali illudendosi di trovare un programma stile collegio per rilassarsi giacché erano inibiti litigi furiosi, pareri contrari, idee strane, tutto era pacioso e idilliaco e non faceva saltare i peli dell’inguine. Invece i dimoranti ibridi del paesucolo, intenti a sognare mete esotiche, non sentirono l’urlo scassa timpani e continuarono a dormirsela alla grande. Anche i paurosi rimasero appiccicati alla tv fregandosene degli affari altrui. Così solo i destrini e sinistrini stanziali del paese ancora scossi dall’urlo selvaggio arrivarono sfiatati e mezzo vestiti dove era partito l’urlo. Sulle prime, vedendo la Mulinella immobile in mezzo all’agro del Verdusso reso pantanoso dalla neve sciolta, si ammutolirono pensando al peggio e si fecero il segno della croce in segno di rispetto, la poveretta era di certo andata nel regno dei più cadendo dalla bicicletta, sapevano che era fallata e solo una brocca poteva comprarla. Poi avvicinandosi la videro contorcersi e arzigogolare con le mani sui capelli, tentava di togliersi una tacchetta sfuggita alla cornacchia impietrita, allora si rinfrancarono e l’assalirono di domande. Mulinella frastornata da tutte ste attenzioni insolite girò qua e la i suoi occhioni grigio azzurri, li guardò e li riguardò e poi disse: “che bello paisà essere tutti insieme in paradiso” Si guardarono muti come pesci, poi il piccoletto bruschino esplose: “ma quale paradiso e paradiso, questo è l’agro del Verdusso, sei proprio la solita stonata imballata !!!! Tutti capirono che avevan corso per una delle solite fole visionarie della Mulinella, le aveva da quando il suo bacarozzo era scappato con la bianchetta, inviperiti lasciarono la poverina e la sua bicicletta a terra, pronunciando un sacco di spropositi tornarono a imbottirsi di ciarlanerie davanti alla tv.
PRESENZA
C’è moltissima letizia
Nel mio oggi
So..che cammini al mio fianco
I tuoi passi sono impercettibili
La mancanza di materia
Non annulla la presenza
La parte migliore resta
C’è moltissima gioia
Nel mio oggi
So..che
Il tuo pensiero mi segue
La distanza dei corpi è solo
Un fatto marginale
Una..convenzione
Impossibilità di vederti
Correre e affannarti
Stringere corpi amati
Sfamarti di tenerezze
C’è moltissima serenità
Nel mio oggi
La tua voce mi giunge
Placa la costrizione
Dell’impossibilità di toccarti
Parlare e scongiurare
Non partire, non andare
C’è moltissima fiducia
Nel mio oggi
Seguo il vento
Vivo nell’attesa
Di reincontrarti
Fuori dal tempo.
A te che da quel dodici marzo sei volato oltreilrecinto
L’OROLOGIO QUADRATO
Per anni la strada ho divorato
Con l’occhio incollato
All’orologio quadrato
Ho viaggiato e viaggiato
Galoppato e sbarellato
Inferi sentieri traversato
Assediati da filo spinato
Ho visto e scrutato
Albe sbiadite e irrigidite
Cieli chiari e cieli infocati
Saltato pasti e ingozzato
Caffè bollenti e chiodi molesti
Ho visto e scrutato
Crepuscoli bruni e notti incavate
Volti bianchi e volti crucciati
Piedi scattanti e piedi bloccati
Con l’orologio quadrato
Incollato a lacrime e naso
Per anni la strada ho divorato
Ho traversato anse e serpai
Nebbie e veleni infiltrati
Quartieri sovrappopolati
Paesi con muli sbandati
Ho visto e osservato
Sorrisi stirati e bimbi assonnati
Alberi verdi e alberi impalati
Tormente infide e afe sgobbate
Piagge rocciose e lande nervose
Superato spaventi e sbandate
Grovigli di serpi e fiumi assetati
Venti furiosi ed esaltati curiosi
Per anni la strada ho divorato
Con l’orologio quadrato
Incollato al cuore spezzato
Ho viaggiato e viaggiato
Oltrepassato oceani placati
Mari rabbiosi e deserti turbinosi
Campi rigogliosi fiumi nebbiosi
Giardini infiorati e boschi festosi
Scorto anime squartate
Volti crudeli e ghigni piegati
Occhi lucenti e mani serrate
Per anni la strada ho divorato
Incollata al vetro sabbiato
Ho viaggiato e viaggiato
Col mio orologio quadrato
HO scavalcato filo spinato
Violentato tempo e ragione
Ingozzato polvere e delusione
Domandato e imprecato
Vegliato e digiunato
Pianto e defecato
Come un vecchio soldato
In trincea appostato
Con l’occhio incollato
Al nemico giurato
Inflessibile logorio d’un tempo
Comandato da travaglio e fiato
Avverso a soste e passioni
In nome d’un dovere esaltato
Da materno senso persuaso
Ho viaggiato e viaggiato
Col mio orologio quadrato
Volteggiato tra forre e precipizi
Varcato confini e pregiudizi
Sfidato poteri e avventurieri
Cambiato stile amanti e pareri
Consumato mille pensieri
Con l’occhio incollato
Al mio orologio quadrato
Per anni la strada ho divorato
Scorticando ogni illusione
Ho rotto l’orologio quadrato
La strada mi ha divorato
Non sono parole a caso, sono la sintesi di un pezzo di vita reale d’una donnamadre. L’’orologio era l’ incubo giornaliero di un lavoro dai modi e ritmi sfrenati lontano da casa
NOI NON VOGLIAMO MIMOSE
Noi donne non vogliamo la mimosa
Se all’indomani ci schiacci e bistratti
Non vogliamo la mimosa
Se come pupattole di pezza ci tratti
Non ci interessa oggi essere celebrate
Di rose e mimosa circondate
E domani sbeffeggiate e stuprate
Imbavagliate e compresse in ruoli laterali
Noi donne non vogliamo la mimosa
Farcita di doppiezza selezionata
Abbiamo lottato per ottenere una parità
Non ci basta un fiore donato
Sulla porta di un supermercato
Per sentirci accettate e inglobate
Equamente valutate nella società
Vogliamo il confronto d’identità plurale
Non un giorno da celebrare con un mazzetto di mimosa
Una serata in compagnia in pizzeria o in discoteca
A imbottire le mutande d’un bel lucido palestrato.
Che ci invoglia a scatenar le nostre inibizioni.
Non viviamo di ossessioni ma di realtà quotidiane.
Siamo impresarie familiari, operatrici volontarie.
Scienziate lavoratrici valorose a tempo pieno
Gli anelli di congiunzione della catena globale
Non un monopolio di mediocri assurdità
Noi l’8 marzo non vogliamo la mimosa
Ripudiamo d’esser sfruttate da bisness calzati.
Comandati e approntati con mazzetti profumati.
Mistificatori di lotte per minimi diritti
Non ci serve una mimosa per esser motivate.
Sentirci donne legittimate e appropriate
Ci serve ottenere dignità
Non subire l’ingiuria d’una diversità
Esser trattate come marmellate da spalmare.
Su fragranti fette biscottate
Masticate e assaporare al mattino
Ed evacuate a mezzogiorno
Come stronzate parafrasate
Da ottusi ciabattoni dell’informazione
Smemorati d’una valorosa storia nostra
Combattuta per protesta di condizione ingiusta.
Non vogliamo un rametto di mimosa
Vogliamo il diritto di avere un figlio quando ci pare.
Amministrare la femminilità senza limitazioni.
Essere ascoltate e valutate per il nostro fare.
Circolare in libertà in ogni occasione
Essere donne senza uniformi e pantaloni
Acquisire pari condizioni umane
Detestiamo ottenere un posto nella collettività.
Sfilando in passerella con le nostre beltà.
Rifarci labbra tette e culi per avere visibilità.
Essere succulenti contorni di tavole allestite
Come concessioni pianificate d’imparzialità
Negative d’un corretto diritto equiparato
Sfruttate da un sistema ambiguo e correlato
Represse e accantonate come pupe scervellate.
Noi siamo l’ossatura della nazione, la linfa dell’economia.
Il sangue che scorre sugli asfalti ogni sabato sera.
Sui muri, sui tetti, nei campi, nei cantieri, tra le ciminiere
Non vogliamo oggi la mimosa
E domani subire l’ingiuria d’una quota rosa.
Sottostare al potere di maschia volontà
Non possiamo inebriarci con olezzi
Rallegrarci la vista con dei muscoli
Non siamo semplicione da trastullo
Siamo guerriere piene di entusiasmo
Temprate da secoli di asprezza e disparità.
Degne d’entrare in ogni competizione
Sappiamo quando e come agire
Senza calpestare i diritti avversari
Non vogliamo la mimosa oggi
E domani essere guardate come aliene
Noi vogliamo l’opportunità di essere donne.
Senza emulare l’uomo per essere gradite
Siamo un universo di energia pratica
L’altra faccia di una stessa medaglia
Capace di lottare e soffrire senza aggredire
Non vogliamo oggi la mimosa
E domani subire l’onta della denigrazione
Vogliamo una mimosa tutti i giorni
Una mimosa che afferma i nostri diritti
Rifiutiamo un giorno di balzelli profumati.
Non ci interessa d’esser celebrate
Con feste, sorrisi e giornate chiacchierate
Mazzetti di rose e mimose donate
Ci risultan più fetide e indigeste delle bastonate.
Se l’indomani perchè donne siam discriminate
Non vogliamo oggi la mimosa
E domani subire l’ affronto d’una diversità.
Esser ricattate, maltrattate e scaricate
classificate femmine visionarie e arriviste
Che rivendicano un diritto approssimato
Non vogliamo una mimosa inflazionata
Distribuita come una bibita gasata
Noi donne ci sentiamo usurpate
Di un simbolo marchiato sulla nostra pelle
Da ave madri consociate delle nostre madri
A memoria di conquista ardua e valorosa
L’8 marzo non vogliamo una qualsiasi mimosa
Vogliamo la mimosa della specie egualitaria
Quella che all’indomani resta fresca e odorosa
Non oltraggia, non violenta non isola
noi donne.
AUGURI A TUTTE LE DONNE CHE LOTTANO NEL MONDO PER LIBERARSI DI SCHIAVITU’ SELETTIVE
L’IMMAGINE DELLA VERITA’
La donna raggomitolata nel suo scialletto d’un colore imprecisato, stinto dagli anni e dai lavaggi, immobile come una cariatide prima mi guardò dal bordo della fontana, mentre frettolosa attraversavo la piazza immersa nei miei mille pensieri, poi con una voce imprecisata che sapeva di remoto e d’avvenire disse: ehi, senti tu, avvicinati, ho da farti una domanda. Sai dirmi dove trovo l’immagine della verità? Io l’ho cercata in uno specchio opaco, in vette inaccessibili, in un pozzo senza acqua e fondo, non l’ho trovata. nessuno l’ha riflessa.
Mentre stranita dalla richiesta cercavo una risposta, la donna con l’occhio fisso all’orizzonte con una mano agitò il suo scialletto, scoprì uno specchio che teneva stretto con l’altra al petto, poi senza darmi il tempo di articolare un suono vocale iniziò a raccontare:
“Ho cercato l’immagine della verità in uno specchio; non l’ho vista riflessa, troppo grigio, opaco e appannato dal mio fiato.
Allora ho cercato la verità nei riflessi dell’acqua d’una sorgente; non l’ho vista riflessa, troppo limpida e chiara.
Sono andata al pozzo a cercarla, non l’ho vista riflessa, troppo profondo e nero.
Non mi sono arresa, a rischio della vita son salita e salita fin la vetta più alta del pianeta; c’era la nebbia che offuscava la vista e la verità non l’ho vista.
Son scesa negli abissi; c’eran troppi pesci che guizzando scomposti balucavano i mie occhi e l’immagine della verità si è dileguata nell’acqua fosca
Son tornata caparbiamente al pozzo; mi sono sporta oltre misura per vedere se almeno c’era una goccia che riflettesse l’immagine ideale della verità, inutile, era privo di acqua che potesse acchiappare un fil di luce per diradare la mia caligine.
Allora scartata ogni logica ho messo l’immagine della verità al di sopra di tutto e per trovarla ho frugato in ogni dove, prima seguendo vie piane, poi quelle contorte e strane, infine quelle caotiche piene di alterazione dove ho calpestato a mano a mano quello che accortamente avrei dovuto pestare.
Per trovare quell’immagine che mi aprisse i cancelli della verità ho scartato il divino per abbracciare il meschino. Ho buttato anni di vita per donarla a chi ci giocava. Mi sono fatta marionetta volontaria di chi non sapeva animarla, mi sono fatta ingannare, mutilare, deturpare da chi non aveva regole e rispetto umano. Ho lasciato che anima e corpo si abbandonassero senza riserve offrendo la possibilità a chi voleva di approfittarne. Non ho saputo custodire una molecola di me. Ho permesso di togliermi volontà, respiro. Ho permesso di farmi divorare, succhiare ogni fluido di linfa. Ho accettato senza condizioni che pioggia, grandine, fulmini e tuoni potessero colpirmi. Ho offerto in olocausto me stessa a chi voleva distruggermi, polverizzarmi.
Vedi, lo specchio che oggi è qui nelle mie mani è argenteo, brillante; il sole lo illumina, imporpora la cornice dorata e il mio volto che le sta di fronte mentre cerca di carpire l’insondabile verità dell’altro volto. Ma nessuna immagine, nessuna verità, nessun volto riflette. “
Sai dirmi tu il perché?
La guardo strabiliata. Nessuna immagine può riflettere lo specchio. E’ nero come la pece.
All’improvviso il volto in cerca di verità perde consistenza, evapora come fosse in una buca piena di acido.
Non so se ho captato le rifrazioni interrogative della cariatide immobile vicina alla fontana, raggomitolata nel suo scialletto nero e lo specchio stretto al petto o quelle di uno spettro distrutto da una ricerca vana. So che la verità è una cosa strana, un’immagine ideale che non si trova in nessuna strada e la donna dalla voce senza passato e avvenire s’è dissolta prima che potessi darle la mia risposta.