Veder cader le foglie è …

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Al primo cader delle foglie degli ippocastani del vialone paesano, in specie la mattina quando le vedo mulinar davanti a me, non so bene il perché, mi sorge alla mente che è come se vedessi il cader di una vita. Probabilmente è l’effetto di questa stagione, transitoria di una bellezza calda, smagliante di profumi e colori che giorno dopo giorno si consuma nelle nebbie padane che stimola i miei sentimenti riflessivi sull’esistenza. Forse anche l’afferrare che tra un po’ di quelle rigogliose chiome che ho visto formarsi in primavera, svettare in estate e fornire con orgoglio un oasi di frescura rincuorante al paese ne rimarrà solo l’ ossatura. Più certo, perché quelle foglie che si staccano dai rami, volteggiano nell’aria, pian pian cadono a terra formando uno screziato vialetto, di rossi, gialli, arancio, ruggine e violetto, inesorabilmente destinato al calpestio frettoloso che le macera con noncuranza fino a dissolvere in una poltiglia d’indecifrabile colore m’intristisce l’anima. La intristisce in quanto quel via vai indifferente all’epilogo di quelle foglie, essenziale al percorso del tempo, insinua nel pensiero una comparazione del ciclo dell’arco vitale. Può risultare assurdo raffrontare il ciclo esistenziale a delle foglie. Si può obiettare che è nelle regole dell’ecosistema. Vero. In fondo è per assolvere il processo della natura che cadono, inondano strade e vialetti e per logica conseguenza la gente che transita le maciulla. Coerente è coerente. la gente passa e ripassa su quelle foglie… ed è fatale che le trituri e disgreghi. Già.. però … Però l’epilogo della logica immalinconisce. Perché? Perché quel cic ciac delle suole o quello stridio sotto le ruote che sbriciola le foglie fa sobbalzare alla mente il paragone. In sostanza la sorte che spetta a tutti gli organismi terrestri! Embè così deve essere per garantire l’avvicendamento. Vero! Tanto vero che il pensiero, nel calar giù di una foglia, non può fare a meno di veder simbolicamente il volar via di una vita. Da cui associarlo all’iter vitale. In ciò, quello che più lo colpisce tuttavia non è l’assistere al turnover dell’eco e biosistema, è che ognuna, una volta atterrata, è liquefatta dal via vai incessante senza il benché distinguo. Anzi, la fase conclusiva, seppur di una foglia, in questo momento storico produce un inquietudine assai profonda che squarcia l’anima, poiché a ben ben riflettere è specchio della realtà in cui, una qualsiasi vita è sempre meno distinta nelle sue sfaccettature di meravigliosa unicità esistenziale. Sempre più triturata in valori fugaci, spogliata di considerazione al singolare, fluidificata in ammasso generico indifferente al suo specifico iter vitale.

Per questo mai, come in questo momento il cader delle foglie, essenziale alla prassi stagionale, mi ha scosso nel profondo da farmi visualizzare la circolarità della vita. In ogni caso, quest’anno a vista mi rimpalla argomentazioni un tantino diciamo inconsuete.

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ByDif

L’autunno

autunno

L’autunno avanza e con il suo policromo inoltrarsi offre uno spettacolo della natura ricco di sfumati tinteggi che passando dal rosso vivo, all’arancio, al giallo, all’ocra ai bruni si spengono in ossidi grigio-ruggine che attirano la vista e allo stesso tempo, almeno a me, insediano una variegatura di sensazioni emotive nell’anima, però non di malinconia ma di meditazione sulla vita, i suoi cicli, le metamorfosi, le chance. Occhieggiando all’intorno, mi par quasi che quel fogliame pigmentato col suo frullo in aria, quel suo accatastarsi pittoresco a macchia, quel suo cci ciac che suona sotto i piedi, sinfonizza più una celebrazione d’inizio di vita piuttosto che di fine di esistenza. È come se nello scenario che m’attornia affiori un che di eccitante, una coralità della natura di esulto e non di mesto avvizzo. A tal punto che ogni foglia arrugginita, sia che giace accartocciata o mulinella al vento sferzante, mi par esprima una briosa contentezza; che ogni albero spoglio una energia carica di fermenti e non di annichiliti desoli; il cielo fulgore e non spento grigiore; la nebbia visibilità e non oblio; le montagne movimento e non rigida staticità; in definitiva assorbo un che nel tutto di rosea metamorfosi che oltrepassa la logica del processo di declino. Intuisco che questa percezione sensoria che ho dell’autunno è po’ inusuale tanto più se considero che sono “figlia” dell’estate, stagione di vero animato rigoglio e solarità. Però la sensazione concettuale che l’autunno mi instaura col suo taciturno linguaggio di saccheggio è di accadimento positivo, di elargizione di auspicate nuove opportunità esistenziali e non di desertica espoliazione di curriculum vitae! Il che, ammetto, mi elabora anche un pensiero alquanto interrogativo dei percorsi esistenziali delle diverse “nature” nel creato. In effetti, vagabondare tra i vialetti del parco stracolmi di “creature” spopolate dal vento dai rami di alberi maestosi e piccoli cespugli mi scatena un subbuglio di meditazioni, in parte di umana invidia per un fato che alla natura concede di scambiarlo e all’uomo no, in parte per introspettiva ricerca di risposte a quesiti che mi affollano coscio e inconscio. Frequentemente in questo periodo mi ritrovo seduta nel parco a fissare i confini fra cielo e terra, come se in quel fissio ci fosse da captare una risposta risolutiva ai tanti sfuggenti perché, oppure istigata dai sensi ispeziono accuratamente l’intorno per capire se a quella progressiva sottrazione di vitalità in natura c’è ribellione o rassegnazione. A volte, l’occhio mi si immobilizza su un punto, come se li ci fosse da escavare, escavare per far uscire dal terreno la luce dell’ intelletto che schiara i rompicapo intimi sulla sorte spartita dal creato alle varie essenze. Il più delle volte però avverto una necessità di uscire per camminare in quella natura, tanto abbondante di sfumature policrome quanto disinteressata al frugare nella sua bellezza, per inspirare e assorbire tutti i suoi sinfonici effluvi,  perdermi in ore di silenziosi meditii che scorrono come attimi fuggevoli di spensierata leggerezza che esiliano gravami e riaccordano umori. Fatto è che immergermi senza reticenze in tutto quel tripudio di colori e aromi  poi, nel rientrare nel tran tran, mi fa sentire in uno stato di grazia come se in quella marea spumeggiante oro e ambra invece che camminare avessi fatto un bagno catartico.

Per concludere, non so il perché da sempre nell’autunno trovo un qualcosa di profondo e stimolante per sensi e pensiero e un atmosfera che mi energizza più della fiorita primavera e più della sfavillante estate. Se l’immagine istintiva che immagazzino è di esuberante vivezza e mai cupezza, forse è per affinità interiore o …forse perché mi par che una foglia cadendo a terra sa che non finisce li. Quel macero che subisce non è desolazione determinante è la possibilità eterna per ricontattare il destino. Mentre l’umana foglia… L’umana foglia non ha la stessa chance di duplicare la sua sorte, almeno non l’ha certa. É il mistero della sua esistenza che tanto, ma proprio tanto su questa terra vorrebbe tradurre in concretezza invece…. Invece se potrà tradurlo in realtà… potrà dopo. Quando il gelido vento spirerà e…e la sua foglia mulinando… mulinando…o si dissolve o…o si riclona!

Comunque sia intanto mi accomuno al pensiero di Soren Kierkegaard:

”preferisco di gran lunga l’autunno alla primavera, perché in autunno si guarda al cielo. In primavera alla terra. “

E guardando il cielo che in questo momento è sgombro di nubi  auguro tranquille e riconcilianti giornate autunnali!

by dif