Vita, vita, vita
dove m’hai sbalzata?
In vetrina
mi sento schiacciata
Apri
maledetta
la porta barrata
Fammi uscire
nel reame incantato
Dove
io possa giocare
beata
Abbandonarmi
all’abbraccio assolato
Altalenar
sulla falce lunata
Vagabondar
fra grattacieli e piedi
Dormire
vinghiata al marciapiede
Destarmi
ammaccata da pedata
Vita, vita, vita
sii generosa
Spalanca la porta
vetrosa
Lascia ch’io vada
leggera
Danzi e volteggi
rotoli sudata
tra i fili
ingarbugliati della strada
Vita, vita, vita
in vetrina mi sento fessa
Rompi i vetri
maledetta!
e.r.
Forse per un bel sole che entrando dalla finestra spalancata stamattina mi è venuta una riflessione spontanea di un tipo di lavoro che obbliga alla visibilità esterna. Direi un parallelo costrittivo imposto dell’essere in vetrina che rende merce convincente per persuadere che il contenuto vale. Uno stereotipo trend efficiente privo di ariosa gaiezza e libertà al pari degli oggetti taroccati in mostra dietro dei lustri cristalli. È stancante e avvilente. Ogni tanto vien la voglia di battersela. Si resiste per necessità. Ma a un sole verace che ti entra dentro e mette in luce ciò che sei e non puoi essere, non si resiste. Senza tanti preamboli si frantuma il vetro e si corre a rotta di collo scapigliati, scalzi, struccati nel prato dietro casa ad assaporarsi la gioia di farsi apprezzare senza sovrastrutture che regolate dal sistema dell’apparenza spiaccicano l’anima.
Bydif