C’era una volta un paesello

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C’era una volta un paesello  bello, bello, da far invidia anche al passante più distrattello. Un paese in cui tutti lavoravano, mangiavano, poco ma mangiavano, miglioravano e tutti facevano progetti per se, i figli, gli amici, la comunità. In questo paese c’era un gran branco di pecore che brucava beato solo l’erbetta del suo prato. Un giorno il gran branco di pecore stufo della solita erbetta iniziò a guardarsi attorno per capire come girava il mondo e se c’era qualche erbetta più appetitosa. Guarda su, guarda giù, prati e monti sembravano tutti uguali, sennonché, qualche pecora scaltra, assaggia assaggia scoprì che l’erba da brucare non era tutta uguale, ce ne era certa un po’ nascosta ai più che ingrassava assai di più. Così, un po’ alla volta, pecora, su pecora, mangiando mangiando il grande branco si scompose e pecora, su pecora si scisse in tanti branchi. Uno di questi branchi, il profittatore, iniziò a speculare sull’erbetta rivendendola a gruppi di pecore di altri paeselli e alcune pecore, più astute e avide, non accontentandosi dei guadagni collettivi, segretamente e in modo che fosse impossibile al branco risalire al misfatto e accusarle di frode, smerciarono l’erbetta per proprio conto a pastori di greggi di paesi molto lontani. Il branco invece del favorino, iniziò a maneggiare e maneggiare l’erbetta per foraggiare il proprio ovile, quello di parenti, amici e amici degli amici; il branco dei fancazzisti, ovini senza senno e amanti della vita da pecora pasciuta stesa al sole, viceversa se la brucava di tutta fretta strappando con mala grazia le radici; un altro, forse il peggiore di tutti i branchi, dei raggirini, per satollarsi indisturbato la ciancischiava con belatini su belatini da intronare tutte le pecore che tentavano di entrare a far parte del branco per brucarne un po’. Solo tre branchi non si fecero fuorviare dall’erbetta nascosta ai più, quello degli onestini, tiepidini e rigidini. Il branco degli onestini continuò a brucare l’erba del proprio paesello rispettando le regole del brucare senza danneggiare i prati, insegnava alle pecorelle giovincelle a comportarsi lealmente e dove non aveva competenze le spingeva a istruirsi, a frequentare greggi più evoluti, a visitare altri paesi, bensì sempre da pecore rispettose, ligie al dovere e consapevoli che l’onestà paga sempre e scavalcare, rubare, aggredire altre loro simili non è un agire da pecore corrette ma da malandrine; inoltre quando poteva si prodigava a cercare campi e prati nuovi in modo che in nessuno ovile mancasse il foraggio minimo, tanto che alla sera il branco era così stanco, così stanco che il pastore di turno non aveva bisogno del cane per farlo tornare all’ovile. Quello dei rigidini, gregge assai snob e classista, seguitò a brucare l’erba del proprio paesello con molta fiscalità e controllo in modo da sfamare il proprio ovile senza sprecarne neanche un filo, stava molto attento che nessuna pecora trasgredisse e profittasse in proprio, in più ogni giorno cercava di farne avanzare per accumulare preziosa biada per tempi meno prosperi sollevando il pastore dallo scervellamento di trovar pascoli per erba di riserva. Quello dei tiepidini, branco che mai si affannava e mai si sprecava, continuò a brucare l’erbetta senza brame e angustie di futuri, contentandosi di saziare la fame giornaliera propria e dei propri agnellini nei campetti più comodi e convenienti al pecoraio, al massimo ogni tanto toccava al can pastore scomodarsi per far rientrare nel branco qualche intrepida pecorella, o abbaiare per sparucchiare fughe ribelli di agnelli un po’ curiosi e un po’ desiderosi di emancipà le conoscenze e infiltrarsi in greggi sociali arrampichini.

Nel mentre il tempo al paesello sembrava scorrere in una sorta di strano equilibrio in cuii branchi agivano senza urtarsi e provocar sommosse, dacché: i greggi per così dire deviati dalla buona condotta si spostavano malandrinamente ma senza troppo uscire dal loro recintello frodatore e senza troppo invadere quello delle pecore tiepidine, onestine e rigidine; a loro volta i branchi dei tiepidini, onestini e rigidini agivano conservando una specie di superiorità, di flemma ottimista e un po’ cecata, non si confondevano mai con gli altri branchi e non si impicciavano dei comportamenti altrui, solo talvolta si riunivano e discutevano che sarebbe stato conveniente per il buon nome del paese porre fine all’agire malverso ma poi tutto finiva a tarallucci e vino.

Invero, in questa pastura idilliaca, chissà come chissà perché avvenne che senza intento i branchi si mescolarono e persero la loro cifra distintiva e il paese sprofondò nel guazzabuglio. Nel pastrocchio ne approfittò il branco del ciarlare che con abile oratoria iniziò in tutti i campetti in cui c’era erbetta fresca a sparlottare e straparlare. In questo gruppo del ciarlare scorrazzava qualche pecorella furbettina e qualche capretto imbroglioncello loro amico.  Nelle sieste meditarono che con le ciarle ci si poteva ricavare un profitto e forse accumulare un tesoretto di buona erbetta col quale potevano liberarsi del pastorizio, attirar ingenue pecorelle e agnellini e farsi una coorte di fedeli compagnetti per migliorare il loro status e trasferirsi in un ovile più acconcio. Così iniziarono a pensare e pensare: come fare per ciarlare e ricavare. Pensa che ti ripensa a uno glie s’accende la lampadina di creare una magica congreghetta. Scandagliò il territorio, trovò una stazioncina vecchia vecchia, ci invitò pecorelle e agnellini un po’ smarriti, un po’ credulini e un po’ maneggini. Li nutrì di favolette rottamine, di poteri avvizziti, li rimpinzò di frottole pomposine da renderli un gregge di assuefatti cretini pronti un di a ribelare il suo verso , idolatrarlo e acclararlo il più capace agnello del paesello tanto bello. Nel frattempo, in un armento, per radunare attorno a se un gruppettino di pecore citrulline, una pecora di pelo ribellino si sgolava a dire che nei campi tutto andava alla malora e ci voleva di rovescià l’andazzo dei greggi accreditati a pascere l’erba collettiva sputtanandoli sulle piazze e rimandarli all’ovile con un bel calcione nelle chiappe; in un altro gregge un agnellone sgridacchiava che bisognava aumentare la sicurezza nei tratturi, delimitare gli ovili, scacciare gli intrusi dai propri pascoli, sganciare il paese dai vincoli capestro di agnelloni egocentrici senza un briciolo di equità che poi vivevano all’estero. Daie oggi, daie domani, il ciarlare a rinculino di sproloquino, di vaffino e di sgancino, produsse nelle teste delle pecore accodate ai voleri dei pasturai e di quelle disorientate una babilonesca confusione, tanto intricata che le convinzioni nei branchi vacillarono, la tranquillità andò a farsi fottere e nel paesello lo scompiglio iniziò a regnar sovrano e nessuno più capì chi era pecora e chi cristiano.

A sto punto della storia, nel paese tanto bello si creò un tal dilemma generale che per le strade ognuno si guardava e non capiva se era ancor pecora o umano, o se era ancor umano o pecora. Uh come si scrutavano e come non capivano a quale insieme appartenevano! In breve, umano o ovino, divenne nel paese l’ alternativa da sgrovigliare ogni mattino. E, fosse pecora o cristiano, al sorgere del sole ognun si dilemmava da che parte andare, a brucare o a lavorare? Se vado a brucare e non son pecora che succede? Se vado a lavorare e sono pecora che avviene? Il rischio di sbagliare a quale “gregge” accodarsi e attirarsi una fiumana di sghignazzi dei foresti era grave, anche perché tutti i leader vecchiarini e i pecorai guardarini dubitavano chi essere chi e chi portare a lavorare o a pascere. Così ovini e umani nel dubbio di farsi coglionà iniziarono a camuffare le abitudini. Al mattino le pecore gutturando strani vocalizzi si sedevano al bar a ciarlettare, gli umani belando, belando se ne andavan a saltellar su e giù per campi con somma gioia dei can pastori che vista la baraonda ne profittavano chi per una giterella di relax, chi per sconfinà in pasciure estere, chi per ringhiasse in libertà. Solo un can pastore arguto e navigato non perse la bussola. Si mise al centro del paese e cercò di sbrogliar il caos e riportar l’ordine di identità. Ma più latrava e cercava di rinsavir pecore e umani e più uni e altri lo sfuggivano pensando che li gabbava. Fatto sta che per le ciurlerie di un branco tutti avevano perso la loro caratteristica natale e il paese a poco a poco si perdeva oltre la nomea anche il carisma internazionale. Infatti, nel mentre che nessuno più conosceva chi era e come doveva comportarsi e solo il can pastore si sgolava senza riuscir a ricomporre la condizione nei ranghi del genere originario, successe che la situazione ingarbugliata non sfuggì a qualche occhio di passaggio, piuttosto loquace e anche invidioso che sobillò in qualche orecchio la crisi identitaria, quasi di catalessi che imperversava nel paese. In un baleno nel circondario e anche oltre si alzò un polverone di vociferii populini che rese il paesello un vero spasso da cuccagna da attirar frotte di gruppi foresti assai furboni. Prima vi piombarono i falchi che si sollazzarono a comandà a umani e pecore di far quello e questo col cavillo di risolvere il loro dilemma nel mentre li fregava assediandosi nei meglio ovili, case, campi e quant’altro gli allettava la loro brama conquistera. Poi accorsero tipi senza arte ne parte per magnà a sbafo e zimbellà pecore e umani. Infine il vocio stratosferico attirò una masnada cosmopolita che trasformò il bel paese in un vero reticolo di via vai di colori e idiomi da fare impallidir la bandiera rimasta appesa al pennone dell’ovil capannone municipale. Il can pastore, unico rimasto lucido, si disperava e si scotennava il pelo sul come fare per districare l’imbroglio causato dal branco dei ciarlini, dei vaffini e dei sgancini visto che le pecore, per non prendersi gli sghignazzi dei foresti ciarlavano e gli umani per l’angoscia di essersi accodati alle pecore e non essere derisi belavano. Chi poteva rendere limpida e chiara l’identità e ripristinare le categorie d’appartenenza in modo da sgombrar il paese dalla masnada di intrusi, sbafatori e profittatori?…! La situazione gli sembrava irrisolvibile. Poi, con il po’ di senno rimasto malgrado gli anni si disse: una scappatoia c’è, però mi urge trovar un intermediario suadente a cui ovini e umani s’affidino senza timore dì esser sollacciati ma…Ma il problema era scovarlo.

Mentre il vecchio can pastorizio investigava a destra e a manca se almeno a una pecora e a un cristiano gli era rimasta la coerenza identitaria, ecco che in paese compare un eremita trascinatore e perspicace che si era allontanato dal mondano un po’ schifato e un po’ costretto da maldicenza sul suo operato, che stufo di starsene a medità in solitario voleva ripristinre un po’ di social contatto. Da acuto razionalizzò subito l’accadimento e per niente scosso dal bailamme tra umano e bestiario arguì che se voleva comunicare coi suoi simili era necessario rompere l’imbroglio vizioso che nel paese s’era creato. Con sveltezza da far invidia a un cronomen collaudato si mise a belà con le pecore per farsi seguire nei campi a ribrucare l’erbetta e a parlà coi cristiani per farsi seguì e ripiazzarli ai propri compiti quotidiani. Ci mise qualche giorno ma senza perdersi in cincischie riseparò ovini e cristiani e riportò i “greggi” ognuno a comportarsi in base al criterio di madre natura. Tuttavia il paesello immobilizzato dal travisamento identitario era tracollato nel caos. Nelle strade l’immondizia appestava, sorci e canaglie scorrazzavano, ciuchini e fannulloni sozzavano. spioni e inetti sovversavano, foresti e strapiantati ovunque culi e lingue parcheggiavano. Quindi ci voleva una scossa che terremotasse le chiappe di tutti per ripulì il paese e liberarlo da tanto sfascio. L’eremitico, con fare diplomatico, sondò il pensiero dei compaesani sulla situazione ma quasi tutti risposero che non c’era alcun problema, eppoi avevano altro da pensare e fare che occuparsi di sgombrà dal sudiciume le piazze, che ci pensassero quelli a cui avevano pagato le tasse. A tal risposte, li per lì il solitario, assai civico e cultore estetico, pensò di rifuggire sui monti a contemplare le bellezze e godersi i profumi dei boschi, benché si disse che non poteva fare lo gnorri e andarsene senza riprovare a scandagliare se nella comunità esisteva almeno uno che come lui pensasse che il paese era ridotto a uno schifo da disonorasse. Animato dal fervore utilitino girò il paese in lungo e in largo. Ovunque constatò che con il suo semplice stratagemma tutte le pecore erano rientrate nel proprio branco e pecorai e can pastori le pasturavano senza drammi. Tutti gli umani si erano sconfusi e ognuno aveva ripreso il suo posto comunitario. Si sentì ringalluzzito e si disse: ho fatto bene a rientrare nel paese, con la pazienza e sapienza eremitica accumulata posso servire anche a cambiar l’apatia dei paesani verso i problemi generali, renderli partecipi rasettatori ambientali e restituire un po’ di dignità che a un paese non fa mai male. Però un qualcosa gli rodeva l’animo. Non capiva bene cosa gli disturbava l’ introspettivo. Nondimeno sapeva di avere un fiuto sopraffino che non sbagliava mai, quindi c’era un qualcosa nel paese che aleggiava però il nocciolo della questione gli sfuggiva. Per afferrare che c’era che gli scuoteva l’animo decise di rifare il giro. Ripercorse in lungo e in largo il paese visionò ogni angolo e sbirciò pure oltre confine per meglio capire. Rivide le torbe di giovincelli che oziavano, i ragazzini esauriti e quelli che giravano ridacchiando, le giovinette dagli occhi tristi che ciondolavano e quelle truccate che adescavano, donne che correvano zoppicando e mamme che strascicavano i figli in un traffico forsennato, omi che a occhi bassi strisciavano i muri elemosinando e omi sudaticci che gongolavano, vecchiette che riempivano le sporte sfilacciate rimestando negli scarti dei supermercati e signorone che al caffè conversavano. Oddio barlumò, i miei bei tempi non so come ma di sicuro son tracollati, il paese non è più una fucina di occupati, troppi non lavorano e mangiano e molti manco s’azzardano più a fare un progetto, tuttavia non per questo mi posso sentire un rodio intimo da non dormire. Forse l’eremitaggio ha cambiato le mie antenne fiutine e esagero, concluse. Poi …

Poi vide: un folla accalcarsi attorno a uno stagno puzzolente da mandare all’altro mondo che stava ad ascoltar rapita un cafone blaterone che neanche una formica gli avrebbe concesso un minimo di attenzione; una massa di omini e donne che si accapigliava per un posto in una tribunetta dove un figuro da un piedistallo sbracciava e snocciolava una fiumana di invettive che nessuno poteva capir a che si riferiva ne tantomeno come e quando agiva e neppure a chi serviva; una piazza stragremita di gente smagrita e malvestita che impalata sotto una bomba d’acqua ascoltava adorante il farneticare di un fringuello cervellone che affermava di consumarsi giorno e notte le meningi per far solo i loro interessi ma indossava vestiti e scarpe che costavano un occhio della testa e un orologio che al venderlo per anno una famiglia ci sguazzava; infine, in un parchetto zeppo di tende, di rifiuti, di cani, gatti e randagi avvistò gente sparuta che applaudiva un trio che gli schiamazzava sul come riorganizzava in meglio la loro vita ma il dire che sentiva  di tutto sapeva meno che di giustizia e democrazia. Fu allora che capì il rodiò. Era lo stesso che lo aveva convinto a ritirarsi in romitaggio. Il paese era bello bello da far invidia anche a un santerello ma oggi come ieri si poteva scannà bensì non poteva cambiare mentalità a una massa di pecore beone. Quindi capitolò l’idea di rimettersi in pista e di tutta fretta se ne tornò al suo romitorio a gustare il sole nascente, i tramonti cristallini, i profumi dei fiori selvaggi, l’acqua gelata dei torrenti alpini, le bacche dei pruneti, i silenzi delle dure pietre.

Lasciato che ebbe il paese al suo destino garbuglio, gli aspiranti pasturai del popolo si sentirono assai sollevati, sapevano che l’eremitico era assai più di loro carismatico e anche un tantino di spirito più dignitoso e franco, averlo tra i piedi sarebbe stato un guaio, comunque la faida tra loro continuò. Il tizio illogico soffiò, soffiò di essere bravissimo a cambiare a tutti un po’ la vita ma inutilmente si sfiatò; il vituperaio strillò strillò che lui non era un burattinaio da profittasse il popolo ma neppure il suo gatto lo cagò; il trio cantò di dare a tutti un po’ ma poi si tenne tutto per se; il cafone ciarlone imbonì i branchi d’omni di esser il miglior guidatore sulla piazza ma assisosi sulla vetturetta prese una curva storta a gran velocità e si fracellò. Al dunque, il suo ritiro a nessuno giovò, ognuno si rivelò un flop.

Dopo qualche mesetto l’eremita ridiscese per comprare un paio di calzari che gli s’erano ammollati e non si stupì affatto di sentire solo belati. In fondo pensò il paese anche strapieno di pecore è bello che più non si può! Mentre fischiettando felice se ne tornava al suo amato eremo, da un angolino il vecchio can pastore che non aveva perso il senno, tornato in paese e ormai da tutti ignorato, con gli occhi lucidi sospirò. Beh che c’è abbaiò a una pecora che lo guardava..In fondo  è  il pastoraio più eccellente che un gregge abbia avuto!

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By dif

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miss luna

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Stasera c’è una luna splendida. Ha una luce così insolita, nel colore e nella lucentezza che ovunque specchia crea aloni luminiscenti fantastici. Mi incanta. Non posso fare a meno di fissarla. L’occhio contemplativo segue il suo andare da stella a stella, da nuvoletta a nuvoletta. Il pensiero corre e fruga. Altre sere, altre lune escono dal magazzino della mente. All’improvviso che t’ affiora? La passione viscerale del sovrastante! Petali di notti esplorative s’aprono. Parte di vita feconda pistilla alla luna. Vita, più o meno volutamente, lasciata al tempo. Non quello perduto, quello intensamente vissuto. L’emozione giunge alle stelle. Sono tante. Brillano. Quanta esistenza congelata e secretata con fredda determinazione in quel brillio! Nel blu notturno mi investe. Luccichii esistenziali procellosi ondeggiano. Bello e brutto animico sbatacciano da terra a cielo. Eremitici cercare, scoprire sapere galleggiano. Brividi. Magnetica alzo lo sguardo, la luna s’è rimpiattata. Vigliacca. Prima istiga e poi scappa. L’ho fatto anch’io… Si e no. Sono scappata ma non ho istigato. Weee, però me la son cercata. Avrei dovuto comprendere… Starmene sullo scoglio a fissarla con l’effetto magnetico inevitabilmente tutto mi tornava a galla. Dovevo intuire che la meravigliosa, spettacolare, magica luna di questa sera non era un punto neutrale dell’universo. Troppo singolare e viva nella luce. Eppoi, come ho fatto a dimenticare che la luna non è impassibile astro ma è la massa celeste simbolo di primordialità misteriosa che riporta l’occhio dell’uomo al cielo. Che È la mater dei che rischiara il buio terreno, rende sicuri i passi impedendo i caracolli nell’oscuro. Che È la portatrice di luce speculare addizionale del pater sole. Il dono accessorio del creato al giorno che in un miscuglio di sacralità e mondano trascina l’uomo verso l’alto. Anzitutto avrei dovuto ricordare che qualcosa di astruso all’intelletto lega l’umano alla luna. Che lei è silenziosa amica ascoltatrice, compagna di sospiri, fantasiosa ispiratrice di magie passionali. È storia millenaria. Più di qualunque astro ha affascinato, stimolato la genialità, ammaliato poeti, musici, asceti, innamorati, naviganti, astronomi, scienziati cosmologi, popolato l’immaginario individuale e corale. Ha ispirato fiumi di parole all’uomo semplice e a quello sofistico. Perché Lei, miss luna, è l’ irrealtà della realtà del contesto universale. Esatto contrario del suo emanatore di luce, che al centro ci mette la materia, la carnalità, il pragmatismo, riconduce tutto al basso, amalgama alla massa secolare; Lei, femminile contrapposto al maschile, l’irrazionale etereo che nutre il razionale corporeo, armonizza la coesistenza, svincola lo spirito, riconduce all’alto, fin su al tetto del cielo. Da sempre immaginario sogno remoto dell’extra che converte la lucidità dell’esistente ordinario, a volte, con le sue bizzarre sparizioni, quell’eclissarsi improvviso ha impaurito e terrorizzato, altre col suo crescere e calare alimentato suggestioni popolari, influenzato leggende e narrazioni ambigue. Nell’universo tutto è speciale, ma è incredibile come questo piccolo satellite del nostro pianeta in determinati momenti calamiti l’attenzione  e a chi  la guarda apre un mondo implicito sconfinato. Nella luna ci deve essere qualcosa che rende inscindibile il rapporto terra- uomo-cielo, ancora l’umano sapere non l’ha scoperto. Un giorno.. forse avverrà.

Intanto stasera con la sua travolgente bellezza ha voluto riaprire le porte del piccolo mondo in cui mi sono rintanata, farmi alzare lo sguardo, ammirare la bellezza del creato, legarlo all’alto. Ricordare che il cibo indispensabile è in quello che sovrasta, ignorarlo, come ho voluto fare io, è morire di fame credendo d’esser sazi. Sapevo che qualcosa di strano mi legava alla luna. Non che fosse così. Sotto questo cielo, in questa notte brulicante di perseidi, con la sua stravagante luce ha voluto proprio che lo comprendessi. Ha fatto di più. Ha riaperto quel tempo di vita volontariamente ghiacciato per paura, farmi scoprire che non avevo ghiacciato i mostri. Avevo ghiacciato gli angeli creativi di vissuti vivi e appassionati. Che ho da stupirmi. È un astro che percepisco come uno specchio in cui v’è riflesso quello che voglio nascondere, è il catarifrangente dell’essenzialità cosciente. Dovrei stupirmi che le somiglio. Non sono magica ma stramba e lunatica eh eh…. di più.

luna

Notte di sogni fantasticamente allunati !

bydif

In questa terra a frittata

terra piatta

A volte ci son domande che non trovano mai risposte certe. Più te le fai e più la logica si intriga. Più insisti e meno arrivi al punto focale. Anzi ti tessi una ragnatela di risposte che intrappola la verità inequivocabile che mette in pace coi perché e coi percome. Così in tanti anni a domande e riflessioni risposte chiare non son venute. Non ho mai compreso come son finita in questa terra piatta, una terra a frittata. Operosa si, tanto, ma incolore all’apparire da fossarti il fiato e strapparti senza tanti complimenti la bellezza che da sempre hai stampata negli occhi e nel cuore. A condurmi in questa terra, in questi luoghi tanto diversi per aspetto, lingua, modi dai miei amati è stato: il tuo volere, il mio cocciuto seguire te e gli avvenimenti o un tiro mancino del destino? Vattelappesca più volte mi son detta. Smettila, da tanto fervore mentale la certezza non la ricavi. Ogni motivo aveva la sua ragione da ribaltare completamente vita e situazione! Spogliarmi dell’abito naturale per rivestirmi con un altro di tutt’altra foggia non è stato facile, era tanto incollato alla pelle che ho dovuto strapparla per indossare il nuovo. Mi sono adeguata al contesto? Macché il nuovo era così ruvido da farmi sanguinare. Non ho saputo accettarlo con il sentimento. Ho fatto funzionare la ragione. D’altronde cos’altro potevo fare. Gli avvenimenti si susseguivano a un ritmo infernale che più che domande urgevano risposte. Così, non so quando non so il perché, ho quasi smesso di domandare al mio alter ego mentale il fine concreto che m’aveva condotto in queste strade, con tanta brava gente si ma tutta a me ignota, nessun volto familiare, nessun legame e consonanza nell’agire e pensare. A poco a poco, quel ribaltone vitale che mi aveva tolto dalla bellezza, dai colori intensi, dai profumi di ginestre, dagli affetti d’un cresciuto naturale, inghiottite le domande è diventato tran tran. Non un tran tran fermo e piano come #questa terra a frittata, tanto accidentato e irto di saliscendi sassosi da somigliar assai alle piagge che schierano al sole gli olivi nella mia terra. Un tran tran costrittivo a vivere al contrario la visuale della terra amata.  Una beffa fatale. Per volere di chi. Tuo, mio. Di ambedue per valutazioni pratiche, opposte nel pensiero ma allineate come i pioppi fuori dalla finestra ai doveri di unità familiare. O… Del destino.  Domande inutili, laceranti, senza risposte. Credevo senza risposte. Le cercavo troppo e con eccessiva fretta per averne. Una risposta c’è sempre alle domande. La porta il tempo. È l’unico che quando meno l’aspetti te la mette sotto gli occhi. Anzi la scrive a caratteri cubitali. Come ha fatto con me. In un luglio, non ricordo se afoso, caldo si, con una infinità di domande mi fece ruzzolare in questa piatta terra a frittata incolore, in un luglio, questo luglio, ha risposto, tolto dubbi, dato certezze. Ora mi è tutto chiaro. In questa terra frittata che mai ho accettato con il cuore, quello è sempre rimasto attaccato all’altra dalle verdi colline, i prati rossi, i cieli turchini, in cui mentre ci camminavo, blateravo e scalpitavo come una cavalla selvaggia, senza comprenderlo, ero approdata spontaneamente. Avevo scelto consapevolmente di venirci. Ne tu, ne il destino mi aveva costretto. Quello che non sapevo e supposto che il venirci mutava la strada agli altri. Diventavo il perno per far curvare gli avvenimenti a chi mi stava intorno. Spostandomi da una terra all’altra inevitabilmente li trascinavo e cambiavo loro la vita. Così è stato. La mia è sempre rimasta la stessa. Li, o qua l’iter era fisso. Come ho fatto a non pensarci. La risposta era semplice quanto bere il caffè di primo mattino. Ci voleva il giudizio del tempo. Lo stesso però che ancora non è riuscito a farmi vedere questa terra a frittata incolore che affossa il respiro bella. Ci cammino ma non amo. I figli li amo. Allora…ohi ohi riattacchi con le domande…no. stavolta conosco la risposta. In questa  terra a frittata che  non amo c’è  il  fascino della vita, la bellezza  del respiro di chi amo. Per questo ancor ci cammino.

Felice settimana a chiunque passa da qui

by dif

14 Luglio

fiona paesag

Che dire se non che sei un giorno speciale. Sei il giorno in cui ho visto la tua luce, il volto di mia madre, aspirato i profumi della vita, iniziato il cammino in questo pianeta, percepito i misteri dell’infinito. Il giorno in cui suoni e colori mi hanno delicatamente accolto nel giardino variegato dell’umano convivere.  Voci e mani mi hanno carezzato, avvolto con amore, inoculato calore, trasmesso energia, festeggiato l’ arrivo con allegria. Ho planato tra braccia solide, seno turgido, mani gentili, sguardi dolci in un giorno splendente di luce. Caldo, elettrizzante, vigoroso, irraggiante, un tantino pigrotto come il sole nel mese di luglio. Ma anche un po’ capriccioso e stravagante, carico di arcano, di imprevedibile immaginazione che trasporta oltre la materia, oltre i limiti, oltre i comuni sensi come lo è il chiaro di  luna in una notte luglina.
Giorni e giorni son passati e tanti segni sulla pelle han lasciato a ricordo di quel primo vagito in un mattino di un 14 luglio assolato, tuttavia nulla è cambiato. Giorno speciale era e speciale resta nel mio carnet. Da allora ho potuto gustare la vita con tutti i suoi pro e contrari. Certo luglio, sei stato birichino,  il 14 non è un numero ne comune ne facile da indossare!  Chiude in se
tante variabili. Avere la luce nel suo regno   è già un annunciato di enigmaticfatalità che rende l’esistere un avventura, a volte bella altre tragica, ma ogni colpo che ha assestato in fondo in fondo non m’ha annoiato, anzi ha reso il tragitto talmente multicolore da sembrare un bel giardino profumato di vicende inconsuete, fiorite e colte in tutte le stagioni, in tutte le giornate con quel vigore passionale che solo il sole di luglio mi ha  regalato. Perché? Perché  siamo esseri di luce e di luce ci nutriamo. Ergo, più luce c’è più potevo  immagazzinare cibo indispensabile ad alimentare corpo e mente, mantenermi in salute e in equilibrio e riescire a resistere ai contraccolpi. Quindi grazie luglio, il tuo sole mi ha e mi riempe di luce e fuoco,  alimenta gli istinti al camminare gioiosamente e a volte con tanto calore e passione da incenerirmi piedi e strada. E il 14? Ovvio, rinnovil mio approccio alla vita.
Avvolta da suoni, volti, calore, amore, a tutti auguro una giornata positiva, carica di quella poetica luminosità serrata nel 14 Luglio.
by dif

1 Maggio. Ieri una festa, oggi tutta un’altra cosa!

1maggio

 

Ieri, la festa dei lavoratori  dell’1 maggio era una festa. Oggi’ Oggi è tutta un’altra cosa. Perchè? Perchè il lavoro è un sogno e di conseguenza ha perso sicuramente quel fascino festaiolo di partecipazione familiare e di ritrovo comunitario per una causa o un’idea! Nessuno va più in piazza col fazzoletto rosso legato al collo come se fosse un trofeo da mostrare con orgoglio o un simbolo d’identificazione del mondo operaio.  Si direbbe che per le famiglie è un’occasione per un week end da tintarella. Infatti, son più quelli che la festeggiano in luoghi di mare che in raduni in piazza. D’altra parte nelle piazze di paesi e città si respira un’atmosfera d’indifferenza verso il valore contenuto in questa celebrazione, probabilmente dovuta in parte al cambiamento di costume e in parte a un diverso modo di dialogare sui contenuti espressi dal lavoro come conquista di diritti ed evoluzione sociale. Oggi, infatti, tutti i giorni si è subissati da prediche e predicozzi sull’essere flessibili negli orari e disponibili a considerare l’occupazione, un transito mediato dalle esigenze tra offerta e domanda. Il lavoro non è più un bene sacrosanto da difendere e mantenere, un diritto ottenuto in conformità di abilità specifiche, acquisite attraverso studi e formazione professionale o semplicemente conquistato per un progetto di vita futura .  E’ un optional. Un miraggio. Sembra diventato una specie di contorno del vivere,  non il fulcro che permette di campare onestamente, formarsi una famiglia, crescere dei figli, avere un tot per pagare affitti e ammennicoli vari. Oggi…Se il lavoro l’hai bene, . é una fortuna e mangi. E se non l’hai? Ti arrangi. Se non ti arrangi… ti suicidi. Tanto nessuno piange per uno sfigato disoccupato.  Gli stessi sindacati non hanno più il potere delegante delle masse ne  la stessa incidenza nel difendere lavoro e lavoratori. Un tempo invece..

Un tempo era qualcosa in più di un concertone e qualche melassa ipocrita. Era la vera celebrazione del lavoro e dell’importanza del lavoratore nell’equilibrio comunitario.   Infatti, del 1 Maggio in memoria giovane conservo bei ricordi legati alla famiglia, alla gente e all’atmosfera seppur  fricchereccia che durante la giornata si respirava ovunque. Ricordi che il tempo non ha scalfito perchè la festa dell’1 maggio era veramente una festa di partecipazione e di allegria del popolo operaio o di quanti credevano nel valore fondato sull’equo diritto di avere un’occupazione che garantisse una vita dignitosa a se e a quanti si aveva sotto la propria responsabilità, figli, mogli, genitori ecc. Allora la gente, col vestito buono delle feste, un immancabile fazzoletto rosso legato al collo, cestini con panini, bandiere e tanto entusiasmo si ritrovava in piazza, dove, verso le 10 del mattino, sul palco allestito per l’occasione, si alternavano a parlare personalità legate al mondo sindacale e politico. Veramente questa parte mi piaceva poco perché mio padre voleva che si ascoltasse in religioso silenzio parola per parola, ma ciò che veniva enfaticamente sciorinato sotto un sole cocente, con la gente che mentre il vestito festaiolo gli si inzuppava dal sudore ascoltava a bocca spalancata come se l’oratore di turno fosse un oracolo vivente, a me e sorella sembravano inutili predicozzi che ritardavano i momenti spensierati. Perciò vivevamo quelle 2 orette sbuffando e implorando il santo protettore che i relatori la facessero corta. Anche mia madre sbuffava, perchè vi partecipava per amore di mio padre ma da donna del fare più che del dire a stare impalata s’infastidiva, le sembrava sprecare tempo. Eppoi non le interessava per niente la politica. Anzi era tanto timorata di Dio, che partecipare alla “festa dei rossi” le appariva un tradimento, non a Dio ma a don Sestilio, il parroco, che ogni domenica tuonava e lanciava strali ai professatori di comunismo operaio, a dire il vero poco misericordiosi e tolleranti, oggi papa Francesco li troverebbe se non abominevoli condannabili da ogni punto di vista. C’è da tener presente che la festa del 1 maggio allora era considerata un po’ come il simbolo di fomentazione di sinistri individui per avversare chiesa e clero, tantè che in fondo alla navata principale della parrocchia, in modo che tutti entrando potevano leggerli, era facile vedere appesi in bella mostra elenchi di scomunicati. Cioè liste di coloro che osteggiavano i sacramenti, perchè preti e robe connesse alla fede cristiana erano come il fumo negli occhi. Di ciò, mi torna alla memoria il volto di qualche mio compagno di scuola e di quanto era rosso di vergogna e si sentiva come un verme quando o padre o madre erano in quegli elenchi. Devo dire che con la solita cattiveria dell’innocenza ragazzina venivano un po’ guardati come dei diversi. addirittura considerati una specie di rinnegati da espellere dal gruppo. Anche perchè spesso padri e madri di opposte fazioni vietavano ai propri figli di mescolarsi nel gioco. Gli uni e gli altri temevano “cattive influenze”. Per nostra fortuna noi sorelle abbiamo avuto due genitori aperti. per niente ancorati a meschinerie faziose, non ci hanno mai detto di non frequentare questo o quello e pur essendo fra loro politicamente di pareri discordanti l’uno ha sempre rispettato l’altro e trovato un punto d’incontro nell’educarci libere, senza mai imporci il loro credo o le loro opinioni. Certo, allora avevamo un’età in cui era lecito non comprendere appieno tutto e considerare la politica una cosa da grandi e se c’erano attriti che se la sbrigassero fra loro. Per cui, alla festa del 1 maggio, essere disinteressate alla parte oratoria era normale, in fondo a noi interessava la parte godereccia, avere i dolcetti, i palloncini che erano in bella mostra, ridere e scherzare con gli altri ragazzini, partecipare ai cori festosi e alle danze che chiudevano al meglio le celebrazioni.. A ben ricordare anche per mia madre era il momento più bello della giornata, le piaceva tantissimo ballare ma essendo una donna avvenente mio padre, da gelosissimo, difficilmente ce la portava. Comunque era un giorno di grande spensieratezza e tutti si tornava a casa a notte fonda felici, i grandi  ricaricati di speranze vere e di energie pronte per far fronte alle durezze e ai sacrifici imposti da lavoro, orari, obblighi padronali.. Forse è per questo che per me  quella del primo maggio oltre che un ricordo dì infanzia di buoni sapori e odori,  di gente con delle facce zigrinate, le mani rudi e callose, piena di vigore e ottimismo, orgogliosa di avere un’occupazione onesta che solennizzava con tutto l’ardore dato dalla cosciente consapevolezza che il lavoro era  il pilastro del progresso delle famiglie, della democrazia e della società, resta una festa importante. Una festa  da tramandare ai figli come monito per non dimenticare le lotte sostenute dai tanti lavoratori del passato per vedersi riconosciuti benefici, minimi ma pur sempre migliorativi. Oggi  considerando che  in gran parte vanificati o addirittura ripudiati con la scusa del tempo che cambia,  ancor più.

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Buon 1 maggio a tutti i lavoratori e tanti auguri fortunosi a chi il lavoro purtroppo lo può solo sognare.

by dif.

ahi ahi temo d’esser stata prolissa come gli oratori del passato fanciullesco!

Per la storia:

La festa dell’1 maggio è celebrata in quasi tutto il mondo a ricordo di battaglie operaie sostenute per ottenere un minimo diritto legislativo che fissasse un orario lavorativo giornaliero dignitoso quantificato in otto ore. Le sue origini risalgono a una manifestazione del 5 settembre 1882 a New York organizzata dei cavalieri del lavoro e ripetuta nel 1884 dove fu deciso che l’evento avesse una cadenza annuale, tuttavia a determinare la data rievocativa dell’1 maggio furono i gravi incidenti accaduti a Chicago e conosciuti come rivolta di Haymarket quando vi furono numerosi morti provocati dalla polizia che sparò sui dimostranti per disperderli. In Europa la festa fu formalizzata dai delegati socialisti a Parigi nel 1889 durante l’internazionale. In Italia fu adottata nel 1991, sospesa durante il periodo fascista e ristabilita nel 1945 dopo i due conflitti mondiali. Nel 1947 purtroppo la sua ricorrenza in Sicilia fu macchiata dal bandito Giuliano che non si sa ancora bene per quale motivo o per ordine di chi sparò su un corteo di lavoratori che sfilava in località Portella della Ginestra causando morti e feriti. Dal 1991 le confederazioni sindacali per celebrare la festività organizzano a Roma un concerto maratona cui partecipano artisti e gruppi famosi che richiamano una folla enorme.

Non è tempo di margherite

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Non è tempo di margherite eppur in quel giardino, sfitto di verde e alquanto tristo d’incuria, sono sbucate numerose. Son li, ritte tra fili grigiastri, con il bianco capoccino al sole ancor stinto dai rigori dell’inverno, che mi guardano. Immobili, mi guardano. Non so se impietrite dal gelo o per contegno riverente a qualche spirito celeste che ha concesso loro il privilegio di goder dell’esistenza tra brina e pioggia. Neanche mi è chiaro se son loro a guardarmi impalate fisse o son io invece a fissarle irrigidita dallo stupore. Mentre le osservo mi domando: perché son cresciute e fiorite ancor prima delle primule selvagge,le violette,i narcisi? Han forse in serbo qualche misterioso messaggio di sfida al tempo o son solo uno spuntato involontario parto di un clima contraddittorio? Non c’è così caldo però da giustificare un precoce anticipo sbocciare e nemmeno il tempo è maturo per accoglierle senza scompigliare il naturale criterio del risveglio arboreo. Allora chi o che cosa le ha fatte sbucare, in quel pezzetto di terra afflitta, tra i maceri delle foglie, sterpi e cocci? È stata la forza misteriosa del ventre di madre terra o l’ aggressività vanitosa di mostrar il loro capoccino bianco. Perfino la forsizia ancor spoglia e miserina di pigmento le guarda fisse con un so interrogativo. Un po’ la comprendo. Le parrà d’esser stata frodata perché di solito, in quel pezzetto di prato disordinato per non dire senza un minimo di armonia compositiva, è la prima a creare una macchia d’allegria che risveglia il rosmarino, la siepe di bosso, l’alloro,l’albicocco, la salvia e le rose spinose avvolticchiate da imprecisati arbusti venuti su di prepotenza. É lei la regina ambasciatrice di tepori. È lei a dare il via ai bisbigli delle gemme per farle ricoprire di tenero verde i rami stecchiti dei mandorli, peschi e ciliegi. Più osservo quelle impalate pratoline e più son perplessa. Poi, all’improvviso il sole si fa imperioso, esce dal grigio nuvolaio e mi investe gli occhi. Per un attimo il bagliore mi impedisce di mettere a fuoco ogni visione. Non distinguo più le cose. Solo una grande macchia aranciata veste quanto mi sta intorno. Che sensazione straordinaria di energia e calore! Chiudo gli occhi e lascio che quel sole inaspettato mi riscaldi e metta un po’ di rossore sulle gote. Mentre faccio la lucertola comprendo il perché delle margherite che non è tempo ma ci sono. Ci sono perché vogliono esserci. È una sfida. Un forte desiderio di crescere anche in quel guazzabuglio di piccolissimo terreno che non sa di giardino per mostrare alla vista il bianco capoccino e godersi il tepore del sole, perché anche quando non si vede c’è. Riapro gli occhi e le osservo, non mi sembran più fuori stagione. Anzi, evocano alla memoria che non esiste una condizione esterna ideale per sgelarsi. Sole o non sole uscire dall’impalamento letargico si può sempre. Una margherita volta la corolla aperta, mi ammalia il suo biancore. Sa di candore intrasferibile che nulla può violare. Mi pervade il buon umore. Con semplicità, quelle margherite, tra i fili grigiastri d’un prato cincischiato,  mi han concesso il privilegio di scorrere con gli occhi la magica meraviglia chiusa nell’amare la vita.

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. Amando la vita è sempre tempo di margherite!

Nel salutarvi spero che anche per voi sia così

by dif.

Non c’è tregua

-boia-

Se fai un giretto nelle cronache del mondo resti senza parole. Ovunque l’umanità è braccata da orchi, orchesse, diavoli e diavolerie. In varie forme e modi spuntano ovunque e ovunque agiscono senza freni. Ovunque la loro furia devastante imperversa e ovunque colpisce senza pietà. Questi immondi esseri, con la loro brama spudorata di efferatezza malvagia, impazzano e sfuggono a qualunque logica e criterio razionale. Ovunque domina un malessere occulto, sia un singolo o una collettività orchi, orchesse, diavoli e diavolerie sono li, pronti a insinuare, suggerire, ossessionare, appestare per far scattare reazioni comportamentali abnormi in cui non ci sono più confini all’agire iniquo, anzi lo trasformano in valide motivazioni, in opportunità liberatorie, in diritto prioritario dell’ego. Sono esseri, perversi e crudeli, dei gelidi furbi che per agire indisturbati sottilmente corrodono le resistenze, capovolgono la realtà, si camuffano in suadenti erogatori del giusto e intrappolano nella morsa psichica del crimine infernale. A tutti i costi vogliono abbattere i confini intrinseci fra bene e male per sovvertire le regole e impossessarsi del potere temporale di menti, cuori, azioni. Hanno raggiunto un grado di insopportabile spudoratezza che nessuno può sentirsi immuni dai loro spietati e subdoli modi. Sono talmente assetati di sangue, potere denaro che pur d’ ingozzarsi, senza un minimo tentennio, riescono a mutare chiunque in proprio simile: in un mostro repellente. In men che non si pensi si impossessano della mente e dell’anima, alterano emozioni e reazioni, trasformano un innocuo vecchietto in killer, madri e padri impeccabili in carnefici, giovani pacifisti in sicari, innocenti bambini in spietati vendicatori,, intere generazioni in boia. Ogni giorno con i loro misfatti conquistano le cronache e primeggiano indisturbati. In varie forme e modi, emergono dalle spelonche degli antri più bui dell’essenza umana, conquistano, inquinano sovvertono, generano caos, smantellano certezze, persuadono all’abominio. Tutta l’umanità è pressata dalle loro mostruosità e tutta l’umanità è diventata preda per i loro turpi scopi. Non c’è tregua per il bene. Perché? Perché il tempo stringe. Il conflitto tra energie agli antipodi è incessante, la lotta è senza sosta. Orchi, orchesse, diavoli e diavolerie incalzano. Vogliono scardinare definitivamente l’ordine, dominare l’umanità, piegarla al loro scellerato volere di atti spregevoli che neanche le civiltà più barbare e primitive osavano. E noi? Stupidamente ci illudiamo che orchi, orchesse, diavoli e diavolerie sono spauracchi dell’immaginario collettivo dell’irreale, roba per creduloni che non si materializzano, non agiscono nel concreto, quindi non sono un pericolo incombente da contrastare con tutte le forze. Noi indifferenti leggiamo, ascoltiamo, inorridiamo e ce ne freghiamo se leader dal carisma malefico affascinano e robotizzano esseri fragili per scannare, stuprare, rapinare, martirizzare, vendere, schiavizzare. Loro avanzano e noi continuiamo se non a ignorare a sottovalutare. L’ immobilismo di conservazione di certo non stana gli immondi ne li tramuta in virtuosi.

bydif

Urrà, George si è sposato!

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Urrà, urrà. Si è sposato George! Era ora! In 10 minuti, contro mesi e mesi di estenuante gossip, nella splendida Venezia, testimone W. Veltroni,  la coppia George Clooney – Amal Alamuddin, ieri ha pronunciato quel si che eternizza, spero, il loro amore e mette fine, arispero, a una spy story che sfracassava le mammuccine . Le sue fan saranno andate in solluchero mentre le  aspiranti cloonettine, sfumate le speranze, avranno versato fiumi di lacrime. Ma, per me… Che liberazione! Non ne potevo più della bombarda mediatica di anni di pettegolezzi: si sposa, non si sposa, con chi si sposa, perché non si sposa, con…forse perché… e..giù una sequela di congetture come se dal suo sposarsi o meno dipendesse la sorte del pianeta. –Altro, che circola, e non è ancora chiaro ai più lo è, purtroppo. – Comprendo che data la sua fama di scapolo d’oro le sue vicende sentimentali attizzavano la curiosità e fornivano, con somma gioia di riviste e talk gossippari, materiale per strabilianti  chiacchiericci, ma non al punto da far sopportare a tutti una gragnola giornaliera di dire e stradire. Vero che è bello, vero che è bravo, vero che è ricco e famoso ma sapere quel che faceva e non faceva, nei minimi dettagli, non cambiava la vita a nessuno, erano cavolacci suoi e di chi gli stava intorno. Mi auguro che il salasso mediatico George – Amal sia finito. Anche se temo che il si non sia l’epilogo del gossip..il bel George non si è sposato a caso… per un colpo fulminante di eros, ma per….mire precise…che…chi vivrà saprà…e…ancora chiacchiere sorbirà…Anche nelle favole più romantiche e allettanti l’amor travolgente  di re e principesse il lieto fine  ha un suo perché!

Comunque vada, auguro ai super mediatici sposini,  che il profumo d’arancio non svanisca mai.

dif

 la foto l’ho presa dal web

Spray paint in a can

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Scusate se non ci riesco. Non ho filing. Più ci provo e meno lo trovo. E da come vanno le cose è più forte di me star lontana dal renzismo. Non mi convince. Riconosco che ha doti eccezionali da banditore piazzista di idee, con una capacità innata di venditore leader di prodotti tuttofare che sa farsi largo tra la folla, per rifilarli senza tanti complimenti. Ma la sua bravura da super propagandista non basta, a far si che i prodotti che promuove ai mercatini giornalieri, con tanta aggressiva roboanza, impallinano il mio cervello al punto da spingere le mani  ad agguantare le sue spray paint in a can estasiata e gridareccia: a me, a me! Sarà perché difficilmente cedo al fascino di racconti fiabeschi, men che meno mi squacchero per un guru salva anime e pance se non riesco ad accodarmi al codazzo del prestigiatore pirinampolloso. Forse no. Più probabile perché le sue bombolette spray mi suonano tarocche. Come se il propano che deve far uscire il prodotto che toglie dal groppone la fatica di dar di gomito, se vuoi campare e non morire di illusioni o peggio di bozze di riforme e linee guida che ben che vada conducono al punto di partenza, è esagerato. Per cui, al posto del prodotto miracoloso, salva paese e gente, esce solo aria compressa e il prodotto resta nel fondo. E poi, ha uno stile esibizionistico talmente presuntuoso che rasenta i limiti del diktatur autocratico che mal si accorda col mio senso attrattivo. Ha un sex appeal catarifrangente! Infatti, chiunque nutre un piccolissimo dubbio, sulla merce che a raffica sforna e si azzarda a fare una domanda chiarificatrice sul come e sul perché le sue bombol spray sono le uniche potenti a garantire risultati strabilianti di perfetto pulito, a un paese tanto imbrattato da egoismi, lobby, corruzione e mala politica, già sbattuto dall’ue, dagli investitori, dalle tre sorelle rating nel cassonetto, con stizza lo regredisce allo stato animaloide gufastro. Un gufo menagramo e bastian contrario che difende solo il suo status quo, o, peggio le social diseguaglianze per precipui fini lucro speculativi pro my casta. Forse non sa, l’imberbe pioniere ” spazza via tutti gli ieri compresi i diritti” che di solito in democrazia ci si confronta e non si acquista a scatola chiusa. Anche qualora i prodotti- proposta fossero il top per risolvere i guai sarebbe legittimo domandare e approfondire per eliminare equivoci fallaci. Sarà banale e antiquato ma il flusso continuo di probabili risultati miracolistici di prodotti griffati IO-SOLO-IO che sgola, twitta, slaida, sfecebucca mi paiono un evidente intento cerca like di consenso, qualunquistico. Per  intenderci quello che alza il livello di popolarità, soddisfa le smisurate ambizioni egocentriche e non porta nulla di nulla a chi clicca. Per quello che constato, gli incontenibili social-web quasi sempre cadono nella fossa dei senza traccia, la loro nave porta link attira consenso popolar-distratto si perde nella corrente infinita e, semmai l’abbia a rimorchio, trascina a fondo quella porta fatti concreti. Di sicuro, i mi piace frettolosi alle sue spray bombol non fanno e non faranno mai risplendere i volti spenti e disperati ne rilustreranno le casse vuote, troppo irrealistici e acritici. Ancor meno i link spray antimuffatarli sono e saranno utili per far schizzare in testa al gradimento european il colossal relitto littleitalian. Rassettare tutto e tutti per riportare in auge il caracollante rudere, a mio sentire non è un metodo proficuo e veloce per far crescere i posti di lavoro, l’economia, i consumi, l’export…sconfiggere la miseria, la diseguaglianza i poteri dominanti europei e extra.. semmai un metodo infallibile per imploderlo.Capisco che il suo rapporto tempo-proposta marcia a velocità supersonica e fa girare la ruota del suo ambizio-esibiziomulino a sballo convinto che quella, girando, girando,  regge, persuade, salva l‘italica baracca e si intasca un guadagno extra di fam-farina. Ciò non mi basta. Non mi induce a diventare una consumatrice di spray paint in a can. Concludendo, sarà per l’innata avversione al pensiero unico, per la cautela a credere alle favole che per incanto ti rendono da pezzente a regina che non riesco a essere renziana? O perché so una gufa che non si lascia trasportare dalla voglia di avere un pulito a prova di batteri politico-virali, non compra bombolette effimere e non clicca subotton likeMah … Essere un bel gufo iellino..mi alletta.. più che… un individuo sparainfrettaaria. E poi..tanto per dire i gufi non sono di cattivo augurio, anzi...secondo sta strofetta …”Gufo, gufo della notte scura, che porti via fame e paura.. veglia su tutte le nostre genti, vecchi, bimbi e sugli armenti. Col tuo canto, che può far paura, proteggi gli amici con madre natura…Fate, gnomi fastidiosi folletti, non potranno più farci dispetti…” è il contrario. Il fatto è che i gufi sono pignoli e hanno doti di preveggenza! L‘udito finissimo e la capacità di girare la testa, quasi a tuttotondo poi gli permette di captare i rumorini e adocchiare su ogni fronte chi e che cosa c’è da sbaragliare. QuindiNon c’è da aver paura solo di stare all’erta, tanto nel predare che nel lasciare.dunque la gufite acuta è ingiustificata a meno che…a meno che non si  voglia ignorare i saggi preveggenti per osannare i…perself-proclaimed peacock….!!!

un salutissimo di felicissimo week end a chi passa

dif

A Maria Di Fatima

Un viaggio, lungo o corto che sia, mi lascia sempre in memoria un associazione a qualcosa che ha colpito i miei sensi come  un profumo, un volto e…. da renderlo unico, tuttavia c’è un tipo di  viaggio  che per emozioni, sensazioni, coinvolgimento e .. supera tutti gli altri. E’ il viaggio pellegrino.  Mi diventa  un momento di vita che, volente o nolente, si radica in  modo profondo in ogni fibra e mi si ripresenta negli attimi più impensabili come se non fosse un ricordo passato  ma un presente che vivo. Talvolta mi inonda gli occhi di immagini, le orecchie di suoni, il naso di odori in modo così straordinario che mi par di essere in un tempo sospeso in cui tutto è fermo in modo che posso recepire anche il più microscopico dettaglio di luoghi, persone, vissuto. Anche oggi, senza un apparente perché sono rivolata in mezzo alla devota folla di Fatima. Le sensazioni sono forti. Non sono passati 12 anni. La piccola immagine di Maria in una scia di profumi indescrivibili passa silenziosa nella grande piazza, io la vedo così:

Sei luminosa Maria 

Avvolta nel candore Divino

Avanzi leggiadra

Come goccia di rugiada

Rotolata da brezza mattutina

A ristoro di gente pellegrina

Semini odor di ginestra

Stirpata da mano maldestra

Intento d’ornamento doviziale

A piedi di Regina ancestrale 

Sei radiosa Maria 

Fasciata da luma ancellare

Sfili su trabiccolo cruciale

Remato da ressa fedele

Osannante la novella

Del passaggio d’una Stella

A stagnanti anime pigre 

Sei maestosa Maria 

La corona gemmata

Ti rende fulgida Sposa

Sfavilla bagliori intermittenti

Su aggreghi spirtali

In cerca di lenimenti morali

A memoria di apparizione

Ciancano arsi da fumi acri

Orando a tutto fiato

Salva ogni animo malato 

Sei tenera Maria

Lo sguardo misterioso

Tremula a baglior venerale

su fronti ricciose votive

A tuo cuore immacolato

Umani testimoni d’onore

Di tuo offerto splendore

Giunti d’ogni dove

A implorar condono de lor falli 

Sei dolce Maria 

Avvolta di grazia ispirata

Con gioiosa comunanza

Sorridi a coacervi festosi

file rumorose di fardelli

Biascicanti desideri d’induzioni

A memoria di apparizione

Su antico suolo lusitano 

Sei generosa Maria

Avvolta nel manto virginale

Dell’eterna mitezza trascente

Porti speranza mutante

Ogni oppressione esiziale

processione

 by dif